Per quelli che credono che il futuro si possa generare e per gli appassionati dell’interpretazione è assolutamente da non mancare "Il consolato guelfo. Una ipotesi di governo del futuro", una cinquantina di pagine in cui Giuseppe De Rita, presidente del Centro studi investimenti sociali, traccia qualche riflessione su come si potrà governare “una società complessa e sfuggente come la nostra” con un approccio meno "presentista" di quanto in passato siano sempre state impostate le analisi sociologiche dei suoi ricercatori.
Negli anni ’60 – anni di moltiplicazione di idee, di dibattiti e di progetti in una società che, uscita dalla povertà e dalla guerra, era assetata di futuro – il Censis compì infatti una scelta alternativa: fare fenomenologia della società e non sua progettazione, nella convinzione che fosse allora più conveniente non farsi prendere dalle “cose da fare” ma guardare a quel che erano le situazioni concrete. All’inizio del terzo millenio, invece, le diverse componenti della società (dai giovani agli anziani non autosufficienti, dalle città ai piccoli paesi in via di spopolamento, dalla cultura collettiva quotidiana alle élite di governo) esprimono un enorme bisogno di futuro: più energico e vitale, più internazionale, più tecnologico, più civico, più morale, più solidale.
Per rispondere a questa sfida De Rita invita allora a pensare il futuro lungo quattro piste:
· i confini dell’Italia oggi e domani, perché la sospensione della speranza di un passaggio identitario “alto” (da identità nazionale a identità europea) ci lascerà prigionieri da una parte dell’impulso a “rinserrarci nel recinto” e dall’altra del rischio di una cattiva assimilazione dei potenti flussi (finanziari, tecnologici, della comunicazione di massa, religiosi, ecc.) della globalizzazione;
· la prevedibile permanenza nel tempo dei fattori (individualismo, primato della persona, senso e gusto della proprietà, propensione a fare piccola impresa, ruolo della famiglia e del territorio) e dei processi (la costante innovazione di processo tecnologico e organizzativo che ha caratterizzato tutto il sistema produttivo italiano, la continuità delle dinamiche, il sistema di welfare, la segreta alchimia della trasmissione delle proprietà individuali e familiari, della successione imprenditoriale, dell’orgoglio dei singoli territori, dell’implicito farsi carico delle tradizioni) che sono stati “fondamentali” durante gli ultimi settant’anni;
· l’attuale frammentazione antropologica del nostro corpo sociale, dove la moltiplicazione dei comportamenti e delle strategie ha determinato l’incremento delle diseguaglianze sociali e ha inciso sulla qualità antropologica dei comportamenti stessi (bassi livelli di autocoscienza e di auto dominio, aumento degli egoismi, propensione ad apparire con qualsiasi mezzo, delegittimazione degli altri da sé, tentazione alla violenza, rifiuto della norma e della normalità), rafforzando un’estrema solitudine esistenziale;
· quali processi generativi e di governo si potranno mettere in atto in una dinamica collettiva fortemente intessuta sia della crescente verticalizzazione del potere, disintermediazione e voglia di radicalità, sia del bisogno forte e diffuso di sicurezza e di certezze.
Perché – afferma De Rita – “più che immaginare e progettare il futuro, è necessario pensarlo. In fondo, se qualcosa oggi manca alla nostra cultura collettiva, non è la tentazione della fuga in avanti, ma è il gusto di pensare”.
Del resto, sulla validità della straordinaria crescita dal basso che ha contraddistinto lo sviluppo italiano possiamo ancora contare per il futuro: in assenza dell’effetto propulsivo di spinte provenienti dall’alto (dalla politica monetaria europea come dal rilancio di un domestico primato della politica) e in presenza delle evidenti difficoltà in cui versano le tradizionali culture di governo sistemico, stanno crescendo nuovi soggetti intermedi di impulso innovativo (le città, l’associazionismo imprenditoriale, le agenzie di scopo, ecc.) e il territorio, anche se non potrà continuare a essere quel motore propulsivo che è stato negli anni ’70 e ’80, sarà comunque imprescindibile per un progresso economico e sociale, considerato che comunque tutte le imprese (anche quelle orientate all’export e quelle di tipo immateriale) vivono sul territorio e ne hanno costante bisogno e che sul territorio si giocano partite (ambiente, risorse idriche ed energetiche, logistica, ecc.) in cui è essenziale una consistente cultura e presenza d’impresa.
Un’analisi dei trend in atto all’inizio inquietante – sintetizzabile nella prospettiva di un “futuro senza” (senza lavoro, senza reddito, senza sicurezza del domani) – ma alla fine in qualche modo consolante nell’intravvedere proprio nelle nostre debolezze e nelle nostre peculiarità le possibili chiavi per un riscatto dai tanti miserevoli comportamenti che sembrano assediare e confondere (anche se per motivi diversi) la generazione cresciuta nel periodo del boom economico e delle utopie e quella dei suoi figli.
Niente di nuovo in termini assoluti, ma sicuramente un incoraggiamento a credere che " il futuro si possa generare". Perché, dovendo ripartire da zero per ridare orientamento a una società così complessa e sfuggente (molecolare, liquida, circolare che sia) governerà chi saprà generare e portare avanti nuova economia reale nei flussi della finanza e della patrimonializzazione, nuove infrastrutture forse cibernetiche e magari visionarie, nuovi processi biologici e biofisici, nuova mobilità, nuovi campi della conoscenza e della comunicazione, nuove responsabilità individuali, nuove e personalizzate spinte spirituali. Una prospettiva distante da quella che ha improntato gli ultimi due secoli di vita collettiva e che costringerà a rimescolare le carte del pensiero culturale, sociale e politico del sistema italiano, ma che proprio nel nostro innato istinto generativo dal basso potrebbe trovare una solida base. (di Alessandra Calzecchi Onesti)