Pietra e vino. I palmenti rupestri della Sardegna centrale

12/03/2020

Le ricerche di archeologia della vite e del vino in Sardegna si sono sviluppate in questi ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda le metodologie produttive.
Nuove indagini evidenziano una notevole quantità degli impianti vinicoli (palmenti) e la loro complessità strutturale, principalmente nell’area interna della parte centro-orientale dell’isola, corrispondente alla regione storica del Barigadu.

I numerosi affioramenti rocciosi e gli innumerevoli massi erratici che caratterizzano questi luoghi, hanno costituito la materia prima con cui l’uomo ha realizzato monumenti di varia natura. Qui, immerse nella fitta macchia mediterranea di roverelle, cisti e odorosi lentischi, si sono rilevate finora oltre duecento vasche intagliate nella roccia, riunite in gruppi di due o tre a formare veri e propri impianti produttivi.

Tali testimonianze sono particolarmente numerose nel territorio di Ardauli, piccolo borgo caratterizzato da un paesaggio collinare in cui prosperano l’oliveto ed il vigneto lavorati ancora con metodi tradizionali. In queste vigne, in cui la vite è allevata ad alberello e l’aratura avviene ancora con l’asino, si coltivano decine di uve differenti: Bovale Sardo, Bovale di Spagna, Moscatello, Semidano, Vermentino, Nasco e Barbera Sarda. Il vino bianco, ottenuto da uve Nuragus nella misura non inferiore all’80% (chiamato ad Ardauli Mravasia),era conosciuto ed apprezzato in tutta l’isola.

Fino agli anni ’50 del Novecento anche l’allevamento di viti su sostegni vivi (quali querce, bagolari, lecci, frassini) era diffusissimo particolarmente lungo i corsi d’acqua e i confini di proprietà.

All’interno di questo territorio, attraverso varie campagne di indagine etnografica e di ricerca sul campo, sono stati individuati finora una quarantina di palmenti chiamati qui lacos de catzigare (vasche per la pigiatura), alcuni dei quali utilizzati fino ad epoca recente.

Il loro numero è di certo destinato a crescere con il prosieguo delle ricerche, anche se l’abbandono delle campagne e il conseguente venir meno degli stili di vita tradizionali, può aver causato in questi ultimi anni l’obliterazione e/o la distruzione di molti di essi.

La tipologia più comune, scavata nella roccia affiorante, è costituita da un sistema di due vasche comunicanti attraverso un foro o un’apertura a canaletta.

La vasca per la pigiatura, denominata sa pratzada, leggermente inclinata, di scarsa profondità e forma grossomodo semicircolare con dimensioni doppie o più  rispetto alla seconda, risulta delimita – nella sua forma più antica – da una serie di ortostati di varia altezza.

La vasca di raccolta, chiamata su lacu, profonda in media 40 cm, posta sempre ad un livello inferiore rispetto a sa pratzada, mostra varie planimetrie: rettangolare, subcircolare, ellittica. Sul piano pavimentale, costante è la presenza di una fossetta utile alla raccolta del liquido. Mancano totalmente fori o alloggiamenti nella roccia funzionali al fissaggio degli elementi del torchio; la tecnica di vinificazione si basava dunque, principalmente, sulla pigiatura con i piedi.

Circa il loro utilizzo, dalla ricerca etnografica è emerso solo l’uso connesso alla viticoltura: le uve, – ammassate in sa pratzada – venivano sistemate man mano all’interno di sacchi di lino tessuti a maglie larghe (sas cuneddas) e poi schiacciate con i piedi da un pigiatore esperto (su catzigadore). Terminata questa operazione i sacchi subivano un’ulteriore azione di pressione mediante la cosiddetta perda ’e isbinare, un masso di pietra di forma grossomodo circolare dalla base appiattita. Alcune prazadas mostrano ancora una fossetta in cui, durante la vendemmia (sa innenna), veniva posto un acino (su pibione) per ogni cesto d’uva tagliata (sa cannada). In questo modo il proprietario della vigna (bintzateri) riusciva a prevedere il quantitativo di mosto che ne sarebbe derivato, così da predisporre per tempo il numero di otri (sas butzas) utili per il trasporto a dorso d’asino e quello delle botti (sas cubas) necessarie alla fermentazione.

Altri elementi accessori potevano essere piccole vasche rettangolari connesse al sistema di pressione con le pietre e canalizzazioni per lo scolo delle acque piovane.

Dalle vinacce poste a macerare con l’acqua si otteneva, invece, il piritzolu, una bevanda identica a quella che gli antichi romani chiamavano "lora".

Per quanto concerne la cronologia, l’uso dei palmenti di Ardauli potrebbe essere cominciato – sulla base dello studio del contesto archeologico in cui questi manufatti sono inseriti – almeno nel II sec. a.C. e proseguito poi – attraverso il Medioevo – fino quasi ai giorni nostri. (di Cinzia Loi)

 

Cinzia Loi -Dottore in archeologia presso l’Università degli Studi di Sassari (Scuola di dottorato “Storia, Letterature e Culture del Mediterraneo” XXVIII Ciclo) con un progetto di ricerca dal titolo: I pressoi litici fra classificazione tipologica e indagine sperimentale. Ha partecipato a numerose campagne di scavo in Italia ed all’estero in collaborazione con Università ed Enti preposti alla tutela del patrimonio culturale. Il suo principale interesse è legato allo studio della cultura materiale e all’etnografia. Dal 2005 si occupa di archeologia sperimentale sia con progetti di ricerca sia di divulgazione attraverso percorsi di didattica per le scuole. E’autrice di numerose pubblicazioni relative alla regione storica del Barigadu (Sardegna centrale) ricca di importanti testimonianze di epoca preistorica e protostorica. Tira con l’arco preistorico ed è presidente dell’associazione Paleoworking Sardegna (www.paleoworkingsargdegna.org)

 

 

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