Il giusto riconoscimento all’italianità del metodo di spumantizzazione

26/07/2017

 

Da tempo Andrea Desana (Ambasciatore delle Città del Vino) – come già negli anni ‘80 nomi famosi quali Luciano Usseglio Tommaset, Italo Eynard, Mario Fregoni, Renato Ratti, Vittorio Vallarino Gancia e l’allora Presidente del Circolo Paolo Desana, oltre a Giovanni Dalmasso, uno dei più grandi esperti che Italia abbia mai avuto nonché primo Presidente (dal 1964 al 1966) del Comitato Nazionale per la Tutela delle DOC – è impegnato nella valorizzazione dell’operato di Federico Martinotti e in particolare della sua invenzione con tanto di brevetto depositato a Torino nel 1895:la spumantizzazione in autoclave o grandi contenitori, erroneamente nota come metodo “Charmat” dal nome del tecnico francese che contribuì a sviluppare l’idea originaria, gli studi e le applicazioni sperimentali del grande villanovese.

Grazie al Comitato Piemontese per la Vitivinicoltura che il 25 marzo 2009 aveva deliberato l’adozione della dizione “Metodo Martinotti” o “Metodo Italiano Martinotti”, ripristinando così una verità storica non riconosciuta per più di cento anni ma assolutamente indiscutibile, oggi l’art 7 comma 2 del Disciplinare di Produzione  dell’Asti DOCG cita la possibilità di indicare nell’etichettatura la dizione “Metodo Martinotti”. Ma si tratta di una dizione facoltativa e non obbligatoria  e che tra l’altro meriterebbe di essere estesa anche al Brachetto Spumante ed al Prosecco, che sono tra i più importanti prodotti derivati dall’intuizione di Martinotti.

Da qui l’importanza, condivisa dall’Associazione delle Città del Vino, di trovare momenti e strumenti adatti per diffondere ulteriormente l’opera dell’enologo di Villanova Monferrato che brevettò un metodo assolutamente innovativo nell’arte di produrre lo spumante di qualità sviluppando la seconda fermentazione in un solo grande recipiente, un autoclave in ferro smaltato, a tenuta di pressione anziché in bottiglia.

L’obiettivo di una maggiore divulgazione non vuole però limitarsi all’aspetto pur rilevante di carattere storiografico, ma ha un’ambizione precisa: quella di promuovere le produzioni che così vorranno essere etichettate rappresentando tale menzione un chiaro ed importante riferimento alla storia viticola ed enologica piemontese, con evidenti positive conseguenze sullo specifico marketing territoriale. (di Alessandra Calzecchi Onesti)

                                                     

Federico Martinotti, un gentiluomo d’altri tempi dall’intuito geniale 

Nato a Villanova Monferrato il 3 giugno del 1860, Federico Martinotti era un piemontese di vecchio stampo, uomo integerrimo, di onestà scrupolosa, di probità scientifica assoluta, che contribuì efficacemente al progresso dell’enologia italiana, svolgendo numerosissime sperimentazioni nei più diversi rami di essa. Laureato in chimica e farmacia nel 1887 all’Università di Torino, Assistente prima e Vice-direttore poi della Stazione Agraria di Torino, nel 1900 a seguito di concorso fu  nominato Direttore della Reale Stazione di Enologia di Asti.

Le sue idee e sperimentazioni spaziarono alla grande nell’ambito di tutta l’enologia e la viticoltura, dallo studio di nuovi chiarificanti, di nuovi metodi di filtraggio, di un pastorizzatore, di pigiatrici, di apparecchi per la distillazione del vino e delle vinacce, della migliore utilizzazione dei residui della vinificazione o dei vitigni americani più raccomandabili per specifici areali o regioni e molto altro ancora. Fu infatti uno dei più grandi conoscitori della varia e complessa produzione enologica italiana, un vero esperto della chimica del vino ma, nel contempo, dimostrò di possedere  un intuito acutissimo, potenziato nei lunghi anni di esperienza presso i suoi poderi, alla cascina Bricco sita in Rocca delle Donne frazione di Castel San Pietro Monferrato di proprietà del fratello insigne medico chirurgo Giovanni Martinotti, alla cantina della Stazione Enologica e presso i più importanti stabilimenti del Piemonte.

Queste sue cognizioni gli permettevano di trovare di colpo la soluzione alle difficoltà più impreviste ed imprevedibili che si incontravano nei trattamenti del vino, con particolare riferimento alla preparazione degli spumanti per i quali la sua competenza era addirittura eccezionale. Importante divulgatore e giornalista, collaborò con “Il Coltivatore” e fu amico di Ottavio ed Edoardo Ottavi, figli del fondatore e grande Giuseppe Antonio Ottavi. Nel 1891 in una delle sue tante pubblicazioni, edita a Casale Monferrato, spiega e divulga in specifico  sui “Vitigni coltivati nel Casalese”, dove riassume i risultati di uno studio richiesto l’anno precedente dal Ministero dell’Agricoltura e che egli realizzò integrandolo con le indicazioni dei risultati che aveva potuto verificare “nella coltura della vite in dieci anni di quasi continue esperienze” sia presso la già citata cascina Bricco di Rocca delle Donne e sia nella vicina cascina dell’agronomo Vigliani e presso il cav. Pugno a San Giorgio Monferrato. Qui aveva messo a dimora i migliori vitigni francesi come il Cabernet, il Cabernet Sauvignon, il Merlot, il Pinot bianco, il Pinot grigio ed il Pinot nero e, presso l’azienda della signora Lina Cassano, vedova Lavagno, in San Martino di Rosignano aveva confrontato i risultati di ben 25 vitigni italiani di cui, viste le recentissime sperimentazioni in merito, riteniamo interessante indicare l’elenco: Aleatico, Barbera bianca, Barbera fina nera, Barbera nera grossa, Balsamina, Bastrè, Bonaria fina, Bonaria grossa, Brachetto, Croetto, Dolcetto, Freisa fina, Freisa grossa, Grignolino nero, Grignolino rosso, Maslavasia bianca, Malvasia nera, Moscato bianco, Moscato nero, Montepulciano, Nebbiolo, Simzana grossa, Simzana piccola, Slarina e Zanè.

Proprio per questa sua grande esperienza e conoscenza rappresentò, insieme agli Ottavi, un importante punto di riferimento ed un vero e proprio baluardo per la lotta contro i tre flagelli americani della vite, ovvero l’oidio, la peronospora e soprattutto la fillossera. Utilizzando il vivaio paterno in Villanova Monferrato, ben prima del 1898, quando cioè per la prima volta fu segnalata la fillossera in provincia di Alessandria (precisamente a Valmadonna ), studiò quali vitigni americani potessero meglio adattarsi ai nostri terreni e quali potessero essere le varietà locali che presentavano maggiori affinità per l’innesto con i vitigni americani e quale fosse la forma di innesto più adatta. A questo proposito, con rara saggezza, ammoniva i produttori vitivinicoli piemontesi ed italiani affermando testualmente che “queste esperienze ad eseguirle bene richiedono anni e, se uno attende a farle all’ultimo momento, corre il pericolo di farle male e di dover rifare quindi i suoi piantamenti, come è successo in alcune regioni della Francia”. Gli innesti da lui realizzati a Villanova tra i 1880 ed il 1890 ( su Riparia e york-Madeira innesta vitigni nostrani come Barbera, Freisa, Slarina, Moscato nero ed altri) con la tipologia “a spacco semplice” sono definiti nel “Trattato di Viticoltura Moderna” di Dal Masso ed Eynard i più razionali perché non lasciano ferite scoperte e presentano ampie superfici di contatto tra i due membri; e, particolare di non comune significato, poiché non riuscì a trovare in tutto il Circondario qualche persona pratica che si incaricasse di bene eseguire i citati innesti, Federico Martinotti realizzò ogni operazione direttamente e la descrisse nei minimi particolari.

Dal 1900 fino alla sua morte (2 luglio del 1924), il grande villanovese fu anche responsabile in Piemonte della lotta contro i frodatori ed i sofisticatori del vino e, come tale, ebbe scontri durissimi e condusse epiche battaglie, insieme ad Edoardo Ottavi ed Arturo Marescalchi, a favore della legge Ferraris proposta nel dicembre del 1911, che prevedeva che i cosiddetti “vinelli” sarebbero finalmente stati controllati e che le vinacce sarebbero state eliminate dopo il 31 dicembre di ogni anno. (Fonte: Andrea Desana)