In un momento cruciale di difficile passaggio e che impone un necessario un cambio di paradigma, in tutti i settori è necessaria la “grande frattura” dell’innovazione, che in viticoltura passa soprattutto attraverso l’uso della genetica. Con questo interessante approccio il professor Attilio Scienza ha voluto ieri portare il suo contributo alla Cerimonia svoltasi in Campidoglio per celebrare il Trentennale dell’Associazione Nazionale delle Città del Vino. Scienza ha tra l’altro ricevuto, nella stessa occasione, il Premio Città del Vino assegnato ad una serie di personaggi che in questi anni hanno a vario titolo collaborato alle molteplici attività svolte dall’Associazione, contribuendo a scriverne la storia.
La genetica è stato il primo atto agricolo fin dal neolitico, realizzato con la selezione delle piante e degli animali più interessanti per essere coltivati o allevati. La scoperta del mistero dell’origine dei caratteri e della loro trasmissione ereditaria sono invece abbastanza recenti. I padri fondatori Mendel e Darwin sono della metà dell’800 ma l’applicazione delle loro scoperte, come spesso capita, è avvenuta tra le due guerre. Circa 100 anni dopo Watson ed Ecrick (1953) definiscono la struttura molecolare del dna. Le prime applicazioni delle scoperte di Mendel e Darwin sono state provvidenziali per la salvezza della viticoltura europea dalla fillossera, con la creazione dei portinnesti da incrocio e delle varietà resistenti alle malattie e sono state alla base della prima rivoluzione verde degli anni ‘50-’60. È stata una vera rivoluzione in un settore produttivo, come quello dell’agricoltura, fortemente ancorato al tradizionalismo ed ai principi del creazionismo. La Chiesa ma anche il Marxismo per ragioni opposte ostacolarono i postulati di queste ricerche, ma con l’adozione del Lamarckismo uno pseudo scienziato – Lisenko – portò l’agricoltura sovietica quasi alla scomparsa e fu all’origine delle grandi carestie degli anni ’20 e ‘30. Non fu quindi una vittoria facile per coloro che sostenevano le ragioni della scelta genetica, nei confronti di quelli che affermavano che con l’innesto la qualità del vino non sarebbe più stata quella di una volta.
E’ possibile stabilire un parallelismo tra le vicende di un secolo fa e quelle che stiamo vivendo nella contemporaneità? Anche se sono molto diverse le emergenze ,allora come adesso il sentimento che le accumuna è la paura. Ma paura di cosa? Mille sono le ragioni per avere paura: dalle malattie alle guerre, dal cambio climatico all’inquinamento e agli emigranti e molte altre ancora. La nostra reazione alla paura non è molto diversa da quella degli antichi e si identifica con il ritorno alla terra madre, all’archetipo junghiano dell’utero o alla religione, anche se ora questa “via di fuga” ha perso molto del suo appeal. E come si manifesta ? Con atteggiamenti di vita più vicini alla natura, con un maggior rispetto delle risorse naturali, con scelte di vita più sostenibili, con il rispetto degli animali. Il ricorso alla viticoltura biologica, biodinamica e naturale è la risposta del mondo della produzione alla richiesta del consumatore di vini ottenuti con un minor impiego della chimica di sintesi.
Ma il biologico non è una soluzione soddisfacente, il rame è un veleno ancora più temibile dei prodotti di sintesi assieme alla comparsa di malattie della vite che erano in passato controllate dai trattamenti tradizionali e quindi come si direbbe in greco antico è un’aporia, una via senza uscita. Siamo di fronte ad un momento cruciale, un passaggio difficile, quello della porta stretta degli antichi che impone un cambiamento (come il passaggio all’età matura nei riti di iniziazione degli antichi). Questo cambiamento è reso necessario dalla domanda impellente di sostenibilità del consumatore e dai vincoli imposti alla coltivazione della vite dal cambiamento climatico, dove non è possibile delocalizzare la viticoltura o cambiare le modalità di coltivazione della vite. Per superare queste difficoltà è necessario un cambio di paradigma, è necessario un nuovo modello di riferimento, in inglese una nuova frame (cornice), dove operare una vera e propria rivoluzione scientifica.
Incroci, le nuove applicazioni delle scienze omiche, l’uso dei MAS, il genome editing, la disgenetica, sono parole di difficile comprensione non solo per la massaia di vigevano ma anche per persone più acculturate perché la genetica non viene insegnata o insegnata male nelle scuole, per quella frattura che separa la formazione scientifica da quella umanistica. Possiamo, e mi riferisco alla coltivazione della vite, con le scoperte della genetica molecolare nei prossimi anni produrre dell’ottimo vino, trasformando i nostri vitigni autoctoni in piante resistenti a tutte la malattie e capaci di adattarsi bene agli stressi indotti dal cambiamento climatico con nuovi portinnesti. Curiosamente saranno i progressi ottenuti in medicina nella cura delle malattie genetiche con le tecniche del genome editing (es. la anemia falciforme) a smontare il muro di diffidenza e di opposizione all’impiego della genetica per una nuova viticoltura.
Dobbiamo evitare di trasformare la nostra viticoltura ed agricoltura italiana in generale nella nave di Teseo, nel paradosso della persistenza della identità originaria, nel tradizionalismo che non ha più nulla della tradizione del passato ma è solo un simulacro anacronistico che sta portando la coltivazione della vite nel nostro Paese alla fine (negli ultimi 15 anni abbiamo perso il 20,5% del potenziale viticolo italiano, in alcune regioni come il Lazio o l’Umbria il 50%). Una piccola digressione può forse essere utile per capire meglio la citazione: il paradosso della nave di Teseo esprime la questione metafisica dell’effettiva persistenza dell’identità originaria, per un’entità le cui parti cambiano nel tempo; in altre parole, se un tutto unico rimane davvero se stesso (oppure no) dopo che, col passare del tempo, tutti i suoi pezzi componenti sono cambiati (con altri uguali o simili). Si narra infatti che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria. Ragionando su tale situazione (la nave è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l’entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto? Tale questione si può facilmente applicare a innumerevoli altri casi; per esempio alla scrupolosa conservazione di alcuni antichi templi giapponesi (anch’essi principalmente in legno, come la nave di Teseo), per i quali ci si può domandare se siano ancora templi originali. Si può anche rivolgere il paradosso riguardo all’identità della nostra stessa persona, che nel corso degli anni cambia ampiamente, sia nella sostanza che la compone sia nella sua forma, ma nonostante ciò sembra rimanere quella stessa persona. È necessaria la “grande frattura” dell’innovazione, quella che in biologia si chiama disruption. In biologia la cell disruption fa sì che la cellula si disintegri rilasciando molecole completamente nuove. Si applica ormai a tutti i settori dove l’utilizzo ad esempio di internet ha cambiato mansioni e mercato del lavoro. E così sta facendo la genetica in viticoltura.
Concludo ricordando l’opera meritoria che l’Associazione Nazionale delle Città del Vino ha in questi 30 anni condotto a favore della scoperta e valorizzazione delle biodiversità viticola: la ricerca e valorizzazione della vite selvatica in Maremma con la collaborazione dell’UNISI e del professor Zifferero, la ricerca e valorizzazione del patrimonio autoctono della vite favorendo la creazione di collezioni e pubblicando numerosi testi di riferimento oltre all’organizzazione di convegni, le iniziative a tutela del paesaggio viticolo ed infine il finanziamento alle ricerche che hanno portato alla identificazione dei genitori del sangiovese, davvero una scoperta dalla grande portata scientifica perché ha aperto la conoscenza sull’origine dei vitigni meridionali. Un grazie, dunque, a nome della comunità scientifica e di tutti quei viticoltori che credono nel ruolo rivoluzionario della ricerca. (Attilio Scienza)