La legge italiana sulle doc. Risultati e prospettive

18/02/2022

A qualche anno di distanza dalla celebrazione del cinquantenario della prima legge italiana di tutela delle Denominazioni di Origine dei Vini (D.P.R. 930/1963), vi riproponiamo l’interessante contributo sul tema scritto dal Professor Mario Fregoni come introduzione al volume “50 Doc – 50 anni di denominazioni d’origine a tutela del vino italiano”, edito da Ci.Vin nel 2013.

 

Sulle antiche anfore del vino veniva scritto il nome del luogo di produzione, quello del proprietario e l’annata. L’uso del nome geografico per indicare il vino risale alle antiche civiltà. Si conoscono, infatti, i genius loci di diversi crus egiziani, armeni, siriani, libanesi, israeliani, greci e tanti romani (oltre 60 nomi grografici, quali Falernum, quello più famoso, Cecubo, Albano, Mamertino, Pompeiano, Pucino, ecc.). Questa tradizione si é estesa in Bourgogne (nel 1000 i Benedettini hanno classificato gli attuali crus), ne parla Papa Paolo III Farnese nel 1549 , il cui sommelier Sante Lancerio illustra i vini che il Papa desiderava nelle diverse circostanze. Preziosa e precisa al riguardo é l’opera enciclopedica del Bacci (1596), medico del Papa, nella quale elenca 44 denominazioni geografiche utilizzate per indicare i vini. I primi riconoscimenti giuridici ufficiali giungono con i decreti del Tokay ungherese (1700), del Chianti (l’attuale zona del Classico) (1713), del Marsala (1773) e delle diverse classi dei crus di Bordeaux (1885 ). La prima legge di uno stato viene approvata dalla Francia nel 1935, anche se in questo Paese diverse denominazioni erano già in uso su scala regionale. L’ Italia inizia con i vini tipici nel 1937 (ma furono una delusione ) e quindi approva la prima legge sulle denominazioni di origine controllata e garantita (DOC e DOCG) nel 1963, con il numero 930. Quando inizia, in Italia, l’uso del nome varietale per indicare il vino? Si può collocare questa scelta verso la fine del 1600, inizi del 1700. É pur vero che i Romani distinguevano le "aminee" (neutre) e le "apiane" (aromatiche, tipo i Moscati) e alcune altre, ma non usavano i nomi per "etichettare" i vini, in quanto nei vigneti le varietà erano mescolate anche con uve selvatiche (Vitis Sylvestris), tradizione che si mantenne sicuramente nel 1700 secondo fonti bibliografiche. I vini erano frutto dell’uvaggio di popolazioni plurivarietali e di uve selvatiche. Storicamente, pertanto, ebbe maggiore importanza il terroir, ossia l’ambiente di produzione e l’uomo che lo governava. Le moderne denominazioni (VQPRD, ora DOP) hanno queste basi storiche. Ciò nonostante negli ultimi secoli, in particolare in Italia e nel Nuovo Mondo, ha preso il sopravvento la consuetudine di chiamare il vino con il nome delle varietà. Un’indagine dello scrivente su scala mondiale ha rivelato che circa il 20% dei vini internazionali porta solo il nome della varietà (Nuovo Mondo, ma recentemente concesso anche dall’Unione Europea); circa il 10% dei vini mondiali viene etichettato con il solo nome geografico (in Europa, come Barolo, Chianti, diversi Chateaux Bordolesi, crus della Bourgogne, ecc.); infine il 70% dei vini viene etichettato congiuntamente con il nome della varietà e della zona di produzione (in Italia e in altri Paesi europei). Dobbiamo porci la questione di quale linea seguire. La valorizzazione e la protezione del nome del terroir o di quello varietale ? Si fa rilevare che le DOP sono protette nell’U. E. e in molti Paesi europei, mentre negli altri Paesi concorrenti o consumatori le denominazioni di origine geografiche si possono depositare come marchi. Al contrario la varietà é apolide e si può coltivare in tutto il mondo, utilizzando il suo nome sulla bottiglia. Nel 1900 la viticoltura mondiale é stata occupata da un ristretto numero di vitigni settentrionali Europei, francesi specialmente (detti internazionali), mentre migliaia di varietà autoctone di origine orientale sono andate perdute, perché non coltivate. L’analisi sensoriale di un panel di degustatori ha rivelato che é difficile riconoscere la varietà utilizzata per un vino, ed altrettanto succede per i consumatori, mentre il terroir é più agevole individuarlo. Inoltre il terroir é inimitabile perché non trasferibile, mentre la varietà si può coltivare in tutti i Paesi del mondo, tanto che la concentrazione su pochi vitigni internazionali (es. i bordolesi) sta producendo molti vini uguali in tutto il globo terrestre (isosensorialità diffusa), specie con la ripetizione della moderna tecnologia di cantina uguale in tutti i continenti. Dobbiamo pertanto puntare sui vini di terroir provvisti della tipicità impressa dai fattori ambientali (terreno e clima). Vi sono varietà di qualità ma che danno vini di alta tipicità solo nei grandi terroir: es. il Sangiovese a Montalcino, il Nebbiolo a Barolo, e via discorrendo. Il terroir si deve proporre non solo attraverso il nome geografico di ampi territori, ma soprattutto con i nomi delle "menzioni geografiche aggiuntive", rappresentate da microzone o aziende note. Si citano gli esempi recenti del Barolo che ha introdotto ufficialmente nel disciplinare circa 180 piccoli nomi geografici, mentre il Barbaresco ne ha introdotti circa la metà. Senza modificare il disciplinare, si possono mettere in etichetta i nomi dei toponimi aziendali associati al termine "vigna". Ma é chiaro che le DOP devono proteggere e assicurare la qualità e la tipicità sensoriale, prerogative non sempre coincidenti. La prima é ormai diffusa perché la tecnologia viticola ed enologica consentono di evitare i difetti e di realizzare standard di buon livello ormai in tutta la terra e in tutte le terre, mentre la tipicità é più difficile da ottenere perché é il frutto dell’interazione fra la varietà di pregio e dell’ambiente (terreno e clima), cioè di un terroir di classe non comune che fornisce vini rari non imitabili.

 

Le leggi italiane sulle denominazioni di origine: 1963, 1992, 2010

La 930/63 é stata una grande svolta nel panorama vitivinicolo italiano, a quei tempi contrassegnato da molto frazionamento delle aziende, confusione nella gestione viticola, diffusione delle frodi che moltiplicavano il vino, giunto alla produzione di 80 milioni di ettolitri e conseguentemente alla guerra del vino con la Francia, nella quale esportavamo 7 milioni di ettolitri di vini da taglio, sostitutivi di quelli dei Paesi nord-africani divenuti indipendenti dalla Francia. La 930/63 gettò le basi delle denominazioni di origine, imitando la legislazione francese sulle AOC. Introdusse il concetto di zona di produzione delimitata e intangibile per ogni DOC, il disciplinare di produzione con tutte le regole sulle varietà, sulle tecniche viticole ammesse e su quelle enologiche. Ha previsto due livelli di denominazione di origine , vale a dire la DOC e la DOCG , con la possibilità di opzione rinunciando alla "G" per denunciare tutto nella DOC sottostante in caso di annate sfavorevoli. Circa venti anni dopo la 930/63, l’allora Ministro dell’Agricoltura Mannino conferì allo scrivente, a quei tempi Presidente del Comitato Nazionale per le denominazioni di origine, l’incarico di rinnovare e aggiornare la legge esistente. La prima innovazione riguardò la definizione DOC, mancante nella 930/63 e che contempla tuttora due principi irrinunciabili: la qualità e la notorietà del vino, ovviamente prodotto in una zona geografica delimitata di cui porta il nome. L’altra proposta riguardò l’ampliamento dei livelli delle denominazioni di origine: sopra la DOCG furono introdotte le microzone e all’apice la " vigna " aggregata al nome del toponimo catastale. Al di sotto della DOC furono previste le IGT ( indicazioni geografiche tipiche), a loro volta collocate ad un livello superiore a quello dei vini da tavola sprovvisti di nome geografico. Nacque in tale maniera la piramide DOC. Fra le varie categorie di vini portanti il nome geografico si allargò e si perfezionò la scelta vendemmiale, sia per scopi qualitativi di annata che per finalità commerciali. In sostanza il livelli geografici alti della piramide DOC configurano la strategia francese dei crus della Bourgogne e degli Chateaux di Bordeaux. Le "menzioni geografiche aggiuntive", introdotte nei disciplinari del Barolo e del Barbaresco, altro non sono che dei crus. La nuova legge fu presentata dal Ministro dell’Agricoltura Goria e dopo l’approvazione dei due rami del Parlamento prese il numero 164/92, e un noto giornalista scrisse che "parlava piacentino", alludendo allo scrivente. Successivamente si é avuto modo di presentarla in altri Paesi, tanto che l’Argentina ne approvò una molto simile. Per completezza si rammenta la recente legge del 2010, che in realtà non ha portato innovazioni concettuali, ma solo perfezionamenti sull’utilizzazione dei diversi livelli delle denominazioni origine, già previsti nella 164/92 e quindi nella piramide DOC; cosi le microzone furono ribattezzate menzioni geografiche aggiuntive. Il contributo concreto delle prime due leggi sulle denominazioni di origine si può desumere dai dati seguenti: la percentuale delle DOC+DOCG all’epoca della 930/63 si aggirava attorno al 10%, mentre nel 2011 é salita al 35%, seguita da quella delle IGT del 26%, che la 930/63 non contemplava. Il 61% della produzione italiana porta pertanto un nome geografico d’origine, ossia il nome di un terroir, di norma di grande superficie. Le DOC e le DOCG riconosciute sono 403 e le IGT ammontano a 118. Si sottolinea che le denominazioni di origine hanno rafforzato la nostra esportazione, che rappresenta il 51% della produzione di vino italiana, pari a ben 4,4 miliardi di euro, la voce più grande dell’export alimentare italiano ed essenziale per il nostro PIL. Ulteriore apprezzamento dell’effetto della nostra legislazione sulle denominazioni di origine si può dedurre dai prezzi realizzati all’esportazione: 3,90 euro alla bottiglia per le DOC-DOCG; 2,50 euro bottiglia per le IGT; 1,42 euro per il vino da tavola senza indicazioni geografiche e 0, 47 euro per lo sfuso. Prezzi migliori vengono ottenuti dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna e da altri Paesi, in particolare per i vini a denominazione di origine o geografica. Il mondo dimostra di avere fiducia nei vini di terroir regolamentati e di conseguenza dobbiamo puntare sulla valorizzazione dei vini portanti un nome geografico, anche se l’UE ha erroneamente concesso l’etichettatura con il nome varietale privo d’origine, imitando il Nuovo Mondo. Il nome varietale é secondario, perché conta la garanzia dell’origine e possibilmente la tipicità, non disgiunta dalla qualità. In etichetta il vitigno dovrebbe seguire la denominazione di origine, con caratteri non evidenti o essere collocato in controetichetta nelle informazioni produttive. Nell’etichetta principale dovrebbe comparire il nome della menzione geografica aggiuntiva o quello del toponimo della vigna, ovviamente associati al nome ombrello della denominazione di origine. In conclusione, dobbiamo ai nostri padri legislativi sulle denominazioni di origine i brillanti risultati conseguiti nel commercio mondiale, che danno prospettive di sicurezza e di indirizzo per il futuro della viticoltura italiana. Le migliaia di viticoltori italiani hanno necessità di chiarezza per l’avvenire della loro attività, assai impegnativa e rischiosa.

 

I padri delle prime DOC

Dopo l’approvazione della legge 930/63 il Ministro dell’Agricoltura in carica nominò il primo Comitato nazionale per la tutela delle denominazioni di origine. Alla presidenza vennero chiamati congiuntamente il Prof. Giovanni Dalmasso e il Sen. Paolo Desana. Il Prof. Giovanni Dalmasso, ordinario di Viticoltura all’Università di Torino nonché presidente dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino, che aveva molto collaborato alla stesura della prima legge, era una grande personalità, il cui prestigio era conosciuto in tutto il mondo ed aveva una cultura francese sulle AOC che trasferì in Italia. Il copresidente era il Sen. Paolo Desana, che si ritiene il padre della 930/63, come redattore e relatore del testo al Senato. Fra i membri che hanno dato un contributo straordinario di idee e di fattivo lavoro si rammentano il Prof. Pier Giovanni Garoglio dell’Università di Firenze, il Prof. Italo Cosmo direttore dell’Istituto di Viticoltura di Conegliano, il Dottor Renato Dettori della Federvini e il Dottor Antonio Niederbacher dell’Unione italiana vini, nonché tanti altri rappresentanti delle varie categorie, che sarebbe assai lungo enumerare, cosi come i diversi Segretari del Comitato, fra i quali il Dr Vittorio Camilla, che resse la carica per lunghi anni. Durante i primi anni il Comitato ha tradotto in norme e regolamenti i principi sanciti dalla legge 930/63 e permise di presentare le prime domande di riconoscimento delle DOC italiane, ponendo l’Italia a livello di altri Paesi europei. La presidenza del Comitato passò ben presto, per ragioni anagrafiche, dal Prof. Dalmasso al Sen. Paolo Desana, che la resse con maestria ed efficacia per molti anni, applicando con raziocinio i principi fondanti delle denominazioni di origine. Causa malattia, al termine di uno dei mandati il Sen. Paolo Desana, ad insaputa dello scrivente, propose al Ministro dell’Agricoltura il mio nome come suo successore, dato che ero stato Vice-presidente del Comitato per un lungo periodo e contemporaneamente Presidente dell’OIV. Come terzo presidente del comitato ebbi l’incarico dal Ministro Calogero Mannino di redigere il testo finale della legge 164/92, che fu presentata in parlamento dal Ministro Giovanni Goria.

Mario Fregoni

Già ordinario di viticoltura all’Università Cattolica S.C. – Piacenza

Ambasciatore delle Città del Vino Orologi Da Sub