Beppe Rinaldi se ne è andato

07/09/2018

Veterinario per studi e filosofo per passione, appassionato motociclista, impegnato nel risolvere i problemi delle Langhe e della sua comunità, intellettuale sarcastico ("Citrico" era il suo soprannome), affabulatore straordinario cinico e colto: questo ed altro ancora era Beppe Rinaldi, che se ne è andato lasciando un grande vuoto nel mondo del vino.

Lo spirito libero, al limite dell’anarchia, e il grande senso civico gli derivavano probabilmente anche dai suoi genitori: il padre Battista Rinaldi, già sindaco di Barolo, aveva acquistato per conto del comune il Castello Faletti, divenuto in seguito sede dell’Enoteca Regionale e del VI.MU – il Museo dei Vini; la madre, professoressa, era la figlia del comandante partigiano Generale Libero Porcari.

Le sue degustazioni pubbliche erano spettacoli di oratoria civile, le sue esternazioni sul vino da barolista rigorosamente tradizionale aborrivano elucubrazioni astruse nella convinzione che i legni grandi e il trascorrere del tempo dovessero restare gli elementi determinanti in cantina.

Nel 1947, a 29 anni, aveva preso il timone dell’azienda di famiglia iniziando a produrre vini straordinari con l’identica impronta: identiche e classiche le vinificazioni, con macerazioni lunghe sulle bucce, e l’affinamento, mai sfiorato dalla tentazione di essere effettuato in piccoli fusti, ma in grandi botti del rovere di Slavonia caro alla storia e all’identità del Barolo. Vini pensati non per essere consumati giovani, ma dotati di tutte le caratteristiche, quanto a struttura tannica, acidità e freschezza, oltre che eleganza aromatica, per sfidare il tempo.

Così come il ricordo di questo filosofo del Barolo e la sua lettera-testamento di pochi mesi fa: “Barolo e Barbaresco dovrebbero essere d’esempio nell’enologia italiana nell’ottica della tutela e della dignità, nella lungimiranza, come lo sono stati insieme al Brunello, al Nobile di Montepulciano, al Chianti. Qui sono nate le norme e le appellazioni per volontà del senatore Desana e del Consorzio di tutela dei vini nato nel 1932. Forse il termine tutela di cui ancora si fregia il Consorzio suona ormai stonato. La quantità di vigne è già smaccata, è quasi tutto un vigneto, si sono già persi non il bucolico, l’agreste, ma i fazzoletti di colore, la diversità, a beneficio del monotono, della monocoltura esasperata. Poi se di un prodotto ne fai molto, lo fai meno bene, sei convinto dai soldi, il denaro convince e corrompe. Non si è per la povertà, ma vedere questi nobili vini andare da 10 a 300 euro fa pensare, come per l’aceto balsamico da 3 a 300 euro. Più la forbice si allarga, più mercantilismo e globalizzazione vincono. Consorzio di tutela e Regione avallano questo andazzo, quando qualità e immagine stanno nella scarsità. Non si dovrebbe far venire i turisti solo per il vino e il tartufo, va mantenuta la bellezza e l’integrità del paesaggio. Ci vorrebbero dei vincoli a difesa delle varietà dei pochi boschi rimasti e contro il consumo del suolo, contro il neo gotico, il neo-medioevo, il neo-palladiano e il neo-pop, lasciamoli agli americani. Invece ci si vuole distinguere a tutti i costi, lasciare il segno del nostro passaggio e arrivare a una rapida immagine, quando la vera originalità in certi luoghi non è il rischio ma forse, la normalità. Anche perché di Giotto ne nascono pochi! Barolo e Barbaresco non dovrebbero nascere o essere proposti in cantine cliniche, volute da norme scellerate, partorite da chi al potere ignora. In Borgogna e in Alsazia vini e legni stanno sulla terra, sulla pietra, sulla ghiaia e vengono buoni, se lo sguardo si alza si vedono muffe e ragnatele, anche pipistrelli. Sono un valore aggiunto, c’est charmant ci viene detto. Dall’Unesco è stato premiato il patrimonio vitivinicolo, non già i borghi. Per mettere vigne violentiamo queste colline quasi uniche e preziose, feriamo questi profili con aggressività e impostura; non le “scuà d’ cà“ –  le scopate di case dei nostri antenati ma le villette a schiera. Siamo ciechi, ci immoliamo scientemente al dio denaro per la moltiplicazione di pani e pesci o per narcisismo. La qualità non sta nell’abbondanza, specie per certi prodotti la cui gerarchia è insita, ineludibile; un Dolcetto, una Barbera non diventeranno mai un Nebbiolo, però si deve rispettare pregi e collocazioni di tutti i vini, come affermò Giorgio Bocca. Questi poggi sono fragili, le marne scivolano a valle, se capita si grida al lupo. I nostri vecchi con un bue non potevano certo pensare di ribaltare un colle. Noi abbiamo le ruspe e le jumbe, e l’albero è diventato un ostacolo come il ciabot all’avanzare del cingolo. Tagliamo gli alberi anche per il posteggio delle auto e dei pullman. C’è chi afferma che battiamo i francesi sui mercati con i numeri delle bottiglie, ma qui abbiamo avuto il becco di appellare le zone vocate, i blasonati cru, in primis “sottozone “ poi “menzioni geografiche aggiuntive”. Il grand cru come la grand minzione, quella del mattino…, o la petite quella a margine del villaggio, e pensare che abbiamo il sorì, bello per suono e immagine che evoca il sorito, soleggiato, di per sé elogiativo. Scimmiottiamo pure, ma almeno in positivo, senza sudditanza, con dignità e furbizia. Su queste colline non abbiamo mai recintato le vigne, non ci sono pietre per i muretti e i clos della Borgogna di conventi e monaci. Abbiamo sempre unito le vigne; i Marchesi Falletti, signori del Barolo, mescolavano le uve della zona di Serralunga con quella di La Morra e Barolo. E’ migliorativo per l’armonia e l’equilibrio di vini prodotti da monovitigno ma pare che lo si neghi, ed è vietato dichiararlo sulle etichette per timore , omertà, sudditanza o per semplici interessi di lobbies mercantili. La democrazia è un lusso su queste colline, ma lo è pure per la nostra Italia che De Gaulle apostrofò non paese povero ma povero paese.Le vigne nelle Langhe Il Consorzio dei vini che ha fatto negli anni rivoluzioni definite e sbandierate come copernicane, ha anche svenduto anima, ruoli e dignità pure ad un ente di controllo, nel caso Valoritalia; ha anche tentato di superare il monovitigno Nebbiolo, un privilegio ma al contempo una angustia e una sfida. I soci del Consorzio devono pagare ma non votare in assemblea perché “ragionano di pancia”. L’etica del feudo va mantenuta su questi colli magici e famosi. Ci si deve arricchire, ma non maturare, piuttosto le viti anche sui tetti, ma non la cultura,, quando è anche per essa che devono venire i turisti. Trionfano fortune e vigne, pericolosamente, anche in luoghi poco degni; il clima è molto cambiato e il Nebbiolo tardivo matura oggi fortunatamente anche dove c’erano noccioli e pascoli. C’è ancora il ricordo di quando, privi di norme, di Doc e Docg arrivavano i Tir dal Sud con il Reposto, il Nerello e il Nero d’Avola, il Cirò per aggiustare i Nebbioli scricchiolanti. Si tentò molto più recentemente di cacciare in nobili vini, già passati nel frattempo da pochi 6 a 13 e ora forse a 18 milioni di bottiglie “vitigni a bacca nera”. Eppure abbiamo davanti l’esempio del Brunello con annessi e connessi passato da 200 a 2.000 ettari in un tempo assai breve. Un vigneto di Nebbiolo per BaroloUn vigneto di Nebbiolo per Barolo Forse aveva ragione Domizio Cavazza fondatore della grande Scuola Enologica di Alba e inventore del Barbaresco. Il suo progetto pare fosse d’estendere la zona del Barolo sino a Barbaresco; certo il delirio di un sognatore di Modena libero dal campanilismo di questi colli. Ma, in luogo di mettere Nebbioli anche sotto i letti, sarebbe allora più vantaggioso includere nell’area di produzione Alba, la capitale. Un dodicesimo comune per il Barolo, la dozzina è un bel numero anche per le uova d’oro… Si aggiungerebbero così terreni dell’albese che già fa parte dell’area del Barbaresco, tradizionalmente e storicamente, molto più vocati che non rittani e forre. Si salverebbero boschi siepi e salici e magari querce e pioppi da tartufo. Barolo e Barbaresco vini dai profumi e gusti eleganti e nobili, avrebbero così la benedizione di nobili donne, dai palati raffinati e davanzali ubertosi. La Contessa di Mirafiore amante e moglie di re Vittorio e la Castiglione, cugina di Cavour, che frequentarono questi colli anche per la gioia dei contadini di Langa.”

"Barolo, il Comune, è stato tra i soci fondatori di Città del Vino più di trent’anni fa”. – ricorda Paolo Benvenuti, direttore dell’Associazione nazionale delle Città del Vino – “E non poteva essere diversamente. Città del vino non è solo un’associazione di territori di produzione d’eccellenza, ma soprattutto di comunità di persone. Qualcuno ha detto che il "vino è democratico" e fintanto ci sarà discussione, critica e attenzione ai valori che abbiamo il futuro non potrà essere che migliore. E’ questo l’invito di Beppe Rinaldi, ci mancherà". (di Alessandra Calzecchi Onesti)