Auguri alla Vernaccia di Oristano Doc

20/05/2021

L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche, vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1971 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).

 

VERNACCIA DI ORISTANO

Disciplinare: DPR 11.08.1971 (G.U. 247 – 30.09.1971)

Regione: Sardegna

Provincia: Oristano

Enoregione:  COSTA CENTRO OCCIDENTALE

Tipologie: Vernaccia di Oristano, Vernaccia di Oristano Superiore, Vernaccia di Oristano Riserva, Vernaccia di Oristano Liquoroso

Vitigni: Vernaccia di Oristano 100%

Cenni storici e/o geografici: La presenza della viticoltura nell’area delimitata può esser fatta risalire sino all’epoca nuragica (1200 a.C. circa) a Cabras, dove infatti, in località “Sa Osa”, furono ritrovati vinaccioli di vitis vinifera. In epoca successiva i romani giunti nel territorio trovandosi di fronte ad una vite a loro sconosciuta la definirono “vernaculum”, cioè vite locale, come era d’uso per le viti autoctone. Nel corso dei secoli la viticoltura ha mantenuto il ruolo di coltura principale del territorio, fino ai nostri giorni. La “Vernaccia di Oristano” è stata la prima DOC della Sardegna, riconosciuta fin dal 1971 con D.P.R. 11 agosto 1971.  La coltivazione tradizionale prevede una densità elevata, vicino ai 10.000 ceppi per ettaro con rendimenti inferiori ai 50 ettolitri di vino ad ettaro che garantiscono, anche nei suoli fertili del Bennaxi, elevati tenori di zuccheri. Per ottenere tale finalità era utilizzata la forma di allevamento ad alberello latino con pochi speroni da 2 gemme o un alberello con potatura a testa di salice, assimilabile alle vitis capitatae descritte da Columella e con capo a frutto di 8-15 gemme e vegetazione sorretta da un tripode di canne. Nei terreni fertili il capo a frutto veniva posizionato annualmente in zone sempre diverse della testa di salice, poiché queste frequentemente disseccavano, rappresentando un ostacolo al trasporto dei liquidi. Il sistema di allevamento risultava quindi privo di un efficiente e stabile sistema conduttore e quando un nuovo capo a frutto veniva riposizionato in quella zona del ceppo, il rifornimento idrico poteva aver luogo solo al prezzo di forti tensioni nei vasi legnosi, contribuendo a determinare un elevato grado alcolico (Branas, 1975). Tali sistemi di allevamento sono ora sostituiti da forme di allevamento a controspalliera. La vendemmia, effettuata di solito dalla seconda metà di settembre fino alla prima decade di ottobre, viene eseguita rigorosamente a mano. Dopo una spremitura soffice ed una fermentazione naturale, il vino è trasferito in botti di media capacità, di castagno o di rovere, riempite al 75-80% del loro volume. In queste condizioni (vasi vinari scolmi e presenza d’ossigeno) sulla superficie del vino si forma un velo costituito da lieviti denominato “flor”. Questi lieviti si stratificano sulla superficie del vino formando prima delle isole, che poi confluiscono fino a formare un velo continuo che poi gradualmente ispessisce. Questi lieviti utilizzano per il loro metabolismo alcool etilico e acido acetico formando aldeide acetica precursore dei profumi caratteristici di questo vino. La formazione di questo velo è fondamentale per la qualità finale del vino Vernaccia, più la sua formazione sarà veloce, più sarà spesso e compatto, maggiore sarà la qualità del prodotto. Quando il velo è completo e le cellule dei lieviti assumono la caratteristica forma esagonale, si realizza la massima protezione dall’aria e l’isolamento delle componenti olfattive e gustative del vino. Raggiunto un determinato spessore, il velo scende in profondità, depositandosi sul fondo della botte, funzionando così da filtro mobile, rendendo il vino limpido e diminuendo l’intensità cromatica. Nonostante i lieviti utilizzino l’alcool etilico per il loro metabolismo, il grado alcolico aumenta di 0,5-0,8% vol. all’anno, questo arricchimento è dovuto al fatto che la molecola dell’acqua più piccola di quella dell’alcool filtra più facilmente dai pori delle doghe sottili delle classiche botti. Le annate più vecchie, anche di oltre 10 anni, hanno gradi alcolici che possono superare i 20% vol.

 Prodotto: MUSCIAME (O FILETTO O BRESAOLA) DI TONNO (PAT)

Descrizione: Del tonno si usa tutto e, con l’aiuto del sale marino, se ne conservano il Cuore (PAT) salato ed essiccato, la Trippa (o belu) (PAT) da lessare poi ricuocere con patate e cipolla, il seme del maschio (Lattume o Fegatello, PAT) da mangiare lessato, le uova (Bottarga di tonno o Buttariga de tonnu, PAT), la Tunninia (parti magre tagliate a strisce e conservate sotto sale in un barile di legno) (PAT), il sottogola in salamoia da cucinare al tegame con erbe aromatiche, la prima parte della coda e il tarantello (la parte più scura della pancia) entrambi sott’olio, la ventresca (la parte più chiara e grassa della pancia) ideale da cucinare alla griglia, lo schienale da consumare brasato in casseruola con vino bianco, alloro e aceto. Dalla parte migliore del filetto si ottiene un prodotto simile al Mosciamme del Mar Ligure (o Musciàmme) (PAT) e al Musciame (o Musettu) siciliano (PAT), che un tempo venivano entrambi preparati con carni di delfino la cui pesca oggi è vietata. La qualità di questa specialità dipende dall’uso del tonno rosso mediterraneo, pescato al primo passaggio tra maggio e giugno quando gli esemplari sono più grassi. Le carni del pesce, privato della pelle e accuratamente rifilato, rimangono sotto sale per alcune ore, poi vengono lavate e asciugate, pressate e messe ad asciugare per qualche giorno all’aria e al sole oppure in appositi locali a una temperatura di circa 25-30° C. Il livello ottimale di maturazione è indicato dalla lucidità e dalla tonalità brunastra della pelle. Si conserva bene sottovuoto e si gusta a fette molto sottili, irrorate con Olio extravergine di oliva Sardegna (DOP) e limone. Con le fette di musciame mescolate a gallette ammorbidite nell’acqua, pomodori a spicchi, scagliette di bussunaggia o bozzonaglia (un tipo particolare di tonno sott’olio) e pezzetti di tunninia e cuore di tonno, si prepara la cappunadda da condire con olio, aceto, pepe e sale e guarnire con foglie di basilico o maggiorana. Tipica dell’isola di Carloforte e Calasetta, dove probabilmente fu portata dalla colonia ligure proveniente da Tabarka in Tunisia, ricorda la capponata ligure che però utilizza ingredienti diversi.

Piatto: ARANCIATA NUORESE (O S’ARANZADA O SU CUNFETTU) (PAT)

Descrizione: Antico e raffinato dolce della Gallura e del Nuorese, la cui produzione casalinga un tempo era legata a particolari ricorrenze come battesimi e cerimonie nuziali. Ancora oggi si dice che un buon matrimonio si riconosce dalla qualità de s’aranzada e a Balnei nell’Ogliastra, dove viene chiamato su cunfettu, è tradizione offrirlo in occasione dei matrimoni. Le scorzette delle arance, tagliate in julienne sottilissima e immerse in acqua per uno o più giorni cambiandola tre volte al giorno, sono affogate nel Miele di asfodelo (PAT) o di lavanda sciolto in una casseruola di rame o in uno sciroppo di zucchero e miele e lasciate cuocere per circa trenta minuti, avendo cura di rimestare in continuazione. Prima di togliere dal fuoco si aggiungono le mandorle intere pelate e tostate (scorze d’arancia e mandorle a volte vengono, invece, tritate). Si versa il tutto a due centimetri di spessore, cercando di pareggiare la superficie, su un piano oleato o in una teglia rivestita di carta stagnola e, quando diventa tiepido, si taglia a forma di piccoli rombi o tronchetti da decorare con sa trazea (minuscoli confettini di zucchero multicolori) e servire su foglie di limone o di arancia ben lavate. Si conserva a lungo in frigorifero o in luogo fresco. Il colore è aranciato, il profumo di agrumi molto intenso, la consistenza tenace e un po’ gommosa ma elastica. Esiste un dolce simile preparato con la Pompia (Presidio Slow Food), ibrido naturale sviluppatosi da incroci tra agrumi locali, appartenente alla famiglia dei cedri: giallo come un limone, con la buccia grossa e bitorzoluta divisa a spicchi, polpa immangiabile perché molto acida. La scorza lessata può essere candita cuocendola per tre o quattro ore nel miele millefiori, lasciata intera (Pompia intréa, PAT, o anche pompia prena se a fine cottura è riempita di mandorle tritate ) o tagliata a listarelle (pompia aranzada) e conservata dentro vasi chiusi di vetro, ceramica o terracotta, ricoperta dallo sciroppo di cottura.