L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche, vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1970 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).
SANGUE DI GIUDA DELL’OLTREPÒ PAVESE O SANGUE DI GIUDA
Disciplinare: già tipologia della DOC Oltrepò Pavese con D.P.R. 6.08.1970 (G.U. 273 – 27.10.1970), poi DOC con D.M. 3.08.2010 (G.U. 191 – 17.08.2010)
Regione: Lombardia
Provincia/e: Pavia
Enoregione/i: OLTREPO’ PAVESE
Città del Vino: Comune di Cigognola, Comune di Pietra de Giorgi
Tipologie: Sangue di Giuda dell’Oltrepò Pavese Rosso, Sangue di Giuda dell’Oltrepò Pavese Rosso Frizzante, Sangue di Giuda dell’Oltrepò PaveseRosso Spumante
Vitigni: Barbera: dal 25% al 65%; Croatina: dal 25% al 65%; Uva rara, Ughetta (Vespolina) e Pinot nero: congiuntamente o disgiuntamente, fino a un massimo del 45%.
Cenni storici e/o geografici: Il suo nome, oltre che al particolare colore (rosso rubino carico, con brillanti riflessi violacei), è legato ad una leggenda secondo la quale Giuda, dopo essere morto, si pentì amaramente di aver tradito Gesù e questi, in segno di perdono, lo fece resuscitare. Giuda sarebbe ricomparso in carne ed ossa in Oltrepò, precisamente a Broni dove, riconosciutolo, i cittadini del posto decisero di ucciderlo, essendo il traditore di Gesù. Giuda si salvò grazie a un dono che fece ai viticoltori locali: risanò le loro viti dalla malattia che a quel tempo le aveva colpite. Per ringrazialo, i viticoltori gli dedicarono il nome del loro vino dolce rosso. Considerato, sin dai tempi di Strabone, una zona di produzione di vini di qualità, l’Oltrepò Pavese è quel lembo di terra collinoso a sud della Lombardia noto per essere il punto d’incontro di quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. Tale peculiare caratteristica rende l’Oltrepò Pavese ricco di culture, lingue, tradizioni e cucine differenti, ma ben integrate tra loro. Questa terra è anche, anzi soprattutto, antica dimora della vite. Un’importante testimonianza arriva dal reperto di un tralcio di vite, risalente ai tempi preistorici, trovato in Oltrepò Pavese. Strabone, nel I secolo a.C., attribuì all’Oltrepò Pavese l’invenzione della botte. Nei suoi testi fu descritta di dimensioni più grandi delle case. Nei secoli successivi s’incontrano poi altre testimonianze. Andrea Bacci, per esempio, nel XVI secolo, descrisse i vini di tale zona con il termine “eccellentissimi”. L’Oltrepò Pavese vitivinicolo attuale trova le sue radici nel secolo scorso, come conseguenza dei danni portati dalla fillossera, e nel rinnovamento globale del mondo vinicolo italiano di quel periodo. E’ sufficiente ricordare che nel 1884 l’Oltrepò Pavese vantava ben 225 vitigni autoctoni. Oggi sono circa una dozzina quelli di maggior diffusione, seppur non mancano produttori collezionisti che hanno raccolto qualche testimonianza del passato, come Moradella o Uva della Cascina o altro ancora. Nonostante tale decimazione, il panorama vinicolo oltrepadano è ancora molto ricco, soprattutto per quanto concerne le tipologie di vino prodotte, fra cui quelle previste dal presente disciplinare. Nel corso dei decenni la viticoltura ha mantenuto il ruolo di coltura principale del territorio, tanto che nel 1970 il vino Oltrepò Pavese, e con esso la tipologia “Sangue di Giuda”, è stato riconosciuto come DOC con DPR del 6 agosto. Riferita a diverse tipologie, ciascuna delle quali presenta caratteristiche organolettiche molto evidenti e peculiari, è di fatto una particolare versione da dessert dell’“Oltrepò Pavese Rosso”: colore rosso rubino intenso con brillanti riflessi violacei, aroma fine, profumo vinoso e fruttato, con note di ciliegia e mora e a volte sentori speziati di pepe nero, al palato secco o dolce a seconda della versione, di medio calore alcolico e fresco per acidità. Le versioni frizzanti e spumantizzate, di colore da rubino chiaro a rosa pallido, di media consistenza e gusto dolce, carezzevole, presentano una spuma fine, abbondante e più o meno persistente.
Abbinamenti: Il tipo secco è ideale per accompagnare salumi o primi piatti della tradizione, antipasti, pasta con sughi di carne, carni bollite o marinate. Le versioni dolci bene accompagnano dessert della tradizione regionale, sangrie, macedonie con fragole, pesche o piccoli frutti rossi, dolci al cucchiaio o a base di frutta e marmellate, pasta sfoglia e formaggi secchi o piccanti.
Prodotto: BITTO (DOP)
Descrizione: Pare che origini e nome risalgano ai celti, esperti conoscitori dell’uso del caglio e della lunga conservazione dei latticini, da bitu che significa appunto «perenne». Infatti il Bitto è l’unico formaggio che raggiunge i dieci anni di invecchiamento senza alterare le proprie caratteristiche organolettiche e strutturali. Prodotto grasso a pasta semicotta, di forma cilindrica e peso dagli otto ai venticinque chili, è ricavato esclusivamente dal latte vaccino degli alpeggi della provincia di Sondrio e dei comuni limitrofi dell’Alta Valle Brembana, con eventuale aggiunta di caprino (da animali di razza Orobica, autoctona a rischio di estinzione) in misura non superiore al 10%, che gli conferisce una speciale aromaticità. Si caratterizza sia per la lavorazione con strumenti artigianali (dalle fascere di legno poroso e traspirabile che permettono al formaggio di asciugare e di respirare durante la formatura e la salatura a secco a tutta l’attrezzatura tradizionale – sempre in legno – che creando una barriera contro l’insediamento di altri microbi anti-caseari aiuta a mantenere le caratteristiche dell’alpeggio dovute in parte alla microflora che vi si instaura) sia per la lunga maturazione, che inizia nelle casere d’Alpe e si completa negli stabilimenti di fondovalle sfruttando il naturale andamento climatico della zona di produzione. La pasta deve risultare compatta con leggera occhiatura, di colore variabile dal bianco al giallo paglierino e sapore dolce e delicato che diventa più intenso e vivace con la stagionatura che va da un minimo di settanta giorni fino a sei o sette anni e oltre.
Piatto: SBRISOLONA (O SBRISULUUSA) (PAT)
Descrizione: La ricetta di questo dolce povero di origini contadine, oggi in attesa del riconoscimento del marchio di Denominazione di Origine Controllata, risale a prima del ‘600 quando pare fosse molto apprezzata alla corte dei Gonzaga. La città di Mantova ne contende la paternità a Cremona, ma si prepara pure in Emilia-Romagna e nel Veronese ne esiste una simile, la torta sgriesolona (o Rosegota) (PAT). Nel Trentino si prepara, invece, la torta di fregoloti (PAT), un altro dolce molto antico, da consumare anch’esso a pezzetti prendendoli direttamente dal piatto di portata essendo preparato con una pasta burrosa e ricca di mandorle da lasciar cadere nella tortiera imburrata in forma di grosse briciole (i fregugli, i fregoloti appunto) in uno strato alto poco più di un centimetro. Un tempo la sbrisolona si preparava con farina di mais, strutto e nocciole. Oggi, che i gusti si sono raffinati, alcuni preferiscono aggiungere anche un po’ di farina bianca e di burro e sostituire le più economiche nocciole con le mandorle. Alle due farine si incorporano velocemente burro, strutto, uova (solo il tuorlo), zucchero, buccia di limone grattugiata e una parte della frutta secca (privata del guscio e tritata grossolanamente). L’impasto va poi distribuito a pioggia su una tortiera ben imburrata cercando di sbriciolarlo con le mani e senza compattarlo sul fondo. Si guarnisce con qualche mandorla o nocciola lasciata intera e si inforna a 180° C per circa un’ora. Quando è cotta, si toglie dalla teglia ancora calda, per evitare che si frantumi, e si serve con una spolverata di zucchero. La consuetudine vuole che la torta, che prende il nome dalla caratteristica consistenza dura e friabile, non vada assolutamente tagliata con il coltello e le brise sono appunto le briciole grandi e piccole che si formano quando viene spezzata con le mani per fare le porzioni.