Auguri al Lambrusco Salamino di Santa Croce

10/03/2020

L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di  città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche,  vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1970 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).

 

LAMBRUSCO SALAMINO DI SANTA CROCE

Disciplinare: Approvato con D.P.R. 1.05.1970 (G.U. 204 – 13.08.1970)

Regione: Emilia-Romagna

Provincia/e: Modena

Enoregione: TERRE DEI LAMBRUSCHI EMILIANI

Tipologie: Lambrusco Salamino di Santa Croce Spumante, Lambrusco Salamino di Santa Croce Rosato Spumante, Lambrusco Salamino di Santa Croce Rosso Frizzante, Lambrusco Salamino di Santa Croce Frizzante

Vitigni: Lambrusco Salamino: minimo 85%; possono concorrere alla produzione di detto vino le uve di altri Lambruschi, Ancellotta e Fortana (localmente detta «uva d’oro»), da soli o congiuntamente, fino a un massimo del 15%

Cenni storici e/o geografici: L’origine storica della denominazione “lambrusco salamino” è sicuramente nota fin dalla metà del 1800 come dimostrano i numerosi documenti storici tra i quali troviamo il catalogo descrittivo delle principali varietà di uve coltivate nelle provincie di Modena e di Reggio Emilia dell’Avv. Francesco Aggazzotti pubblicato nel 1867, il saggio analitico “I lambruschi di Sorbara e salamino” di Enrico Ramazzini del 1885. Fa parte della famiglia dei Lambruschi Doc emiliani e deve il suo nome all’omonima frazione di Carpi da cui sembra si sia anticamente diffuso l’omonimo vitigno; ma il nome deriva anche dalla forma del suo grappolo, piccolo, cilindrico, che ricorda appunto un piccolo salame. Della “vitis Labrusca” ne parla Catone nel De Agricoltura e Varrone nel De Rustica. E ancora Plinio, che nella Naturale Historia, documenta le caratteristiche della “vitis vinifera” “le cui foglie come quelle della vite Labrusca, diventano di colore sanguigno prima di cadere”. Nel 1300 il bolognese Pier dè Crescenzi, nel suo trattato di agricoltura osserva sulle Labrusche, che “nere sono, tingono i vini e chiariscono, ma intere e con raspi stropicciati si pongono nei vasi e non viziano il sapore del vino”. E’ il primo documento che indica che in quei tempi era nato l’uso di fare il vino dall’uva di quelle viti, che forse non erano più tanto “selvatiche”. Occorre ricordare infatti che le antiche Labrusche erano le viti selvatiche (Vitis Vinifera Silvestris) o le viti della sottospecie Vitis Vinifera Sativa, che nascevano spontaneamente da seme, nei luoghi non coltivati. Per questo motivo il Lambrusco è considerato uno dei vitigni più autoctoni del mondo in quanto deriva dall’evoluzione genetica della Vitis Vinifera Silvestris Occidentalis la cui domesticazione ha avuto luogo nel territorio modenese. Il vino Lambrusco è sempre stato tenuto in grande onore dai Duchi, tanto è vero che, due secoli e mezzo prima, in un suo “olografo” del giugno del 1430, Nicolò III d’Este aveva ordinato che “di tutto il vino che veniva condotto da Modena a Parigi, la metà del dazio non venisse pagata”, in modo da favorirne il commercio. Gli autori più significativi dell’800 confermano come nel corso dei secoli Modena rappresenta un territorio vocato alla produzione di vini mossi che hanno acquisito particolare notorietà e tradizione di produzione e consumo e i cui caratteri sono dovuti esclusivamente o essenzialmente all’ambiente, compresi tutti i fattori naturali e umani che lo definiscono. Gli Autori latini (Catone, Plinio, Columella) nei loro scritti descrivono la produzione di un vino mosso (lambrusco) in grado di liberare spuma e quindi se ne deriva l’immagine di un vino frizzante. Occorre però attendere lo sviluppo delle conoscenze che si ebbero dalla fine del ‘600 a tutto l’800 per capire la causa biologica e la natura chimica della fermentazione alcolica e alcuni aspetti relativi alla tecnica enologica collegata. Altre scoperte dovevano però fare far in modo che tutta l’anidride carbonica prodotta nel corso della fermentazione rimanesse sciolta nel vino: occorreva da un lato un contenitore in grado di reggere la pressione e dall’altro un tappo che ne impedisse la fuga. Sono due condizioni queste che si realizzarono tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700. Tale propensione per vini frizzanti bianchi e rossi viene ricordata da Autori successivi del ‘600 e del ‘700, fino alla conclusione della lunga evoluzione genetica che porterà alla miglior identificazione delle viti selvatiche dei latini nelle varietà bianche e soprattutto rosse (famiglia dei Lambruschi modenesi) descritte dagli ampelografi del 1800 (in particolare Acerbi, Mendola e Agazzotti). Oltre ai progressi tecnologici si ebbe anche un importante cambiamento climatico (piccola era glaciale) con autunni freddi e umidi, ritardi di maturazione e fermentazioni incomplete che determinavano riprese fermentative in botte con rottura delle stesse. Dalla metà dell’800 alla metà del ‘900 la maniera più diffusa di ottenere un lambrusco frizzante naturale in senso industriale era rappresentata dalla rifermentazione in bottiglia. Si otteneva così un lambrusco frizzante torbido, senza sboccatura, e la gran parte del prodotto. Nel 1860 prese così ad operare a Modena la prima cantina di produzione di lambrusco frizzante di tutta l’Emilia. Le produzioni migliori venivano comunque sottoposte alla eliminazione delle fecce anche con metodi che ne diminuissero le perdite quanti qualitative, dapprima con macchine travasatrici isobariche (messe a punto dal Martinotti a fine ‘800), mentre attualmente anche nei vini frizzanti e spumanti rifermentati in bottiglia si usa eliminare il deposito di fecce di lievito dopo averlo fatto discendere verso il tappo e previo congelamento del collo della bottiglia.

Abbinamenti: Vino fine da tutto pasto, predilige le specialità emiliane a base di salumi, tagliatelle, cappelletti in brodo, cotechino e zampone, umidi leggeri, torta di riso e ciambella reggiana.

 

Prodotto: STROLGHINO (O SALAME STROLGHINO MAGRO DI CULATELLO)

Descrizione: Antico salame tipico della provincia di Parma, è il primo dell’anno a essere mangiato per il suo breve periodo di stagionatura (massimo 15 o 20 giorni). Ottenuto con le rifilature di carne ricavate dalla lavorazione del culatello e del fiocco di prosciutto, macinate non troppo finemente e mescolate talvolta con parti più grosse tagliate a mano, viene insaccato in un budello bovino piccolo e sottile (in dialetto filsola, «piccola fettuccia»). Pare che un tempo avesse forma arcuata, a ferro di cavallo, oggi invece si presenta come un nastro compresso, legato a mano, di lunghezza variabile dai venti ai quaranta centimetri e peso che oscilla dai duecento grammi a un chilo. La composizione della concia è controversa e non dovrebbe contenere pepe o aglio; molti invece usano vino e aglio. La superficie è di colore rosso mattone e bitorzoluta, la fetta al taglio rivela carni e lardelli distinti e ben distribuiti. La consistenza è morbida e il gusto dolce e delicato. La tradizione vuole che venga tagliato a fette molto spesse – secondo gli esperti per pelarlo perfettamente è consigliabile immergerlo per pochi minuti in acqua tiepida – e servito come antipasto insieme con un bicchiere di Malvasia e pane croccante. Simile allo strolghino di Parma è lo strolghino emiliano non canonico lavorato con carni suine chiare (lonza, filetto ecc.), il salame di culatello prodotto nell’Oltrepò mantovano e lo strolghino toscano, insaporito con spezie e vin santo.

 

Piatto: TORTA DI RISO DI BOLOGNA (O TORTA DEGLI ADDOBBI)

Descrizione: Antico dolce bolognese, che oggi si fa in particolare per la festa di San Giuseppe, la Pasqua e il Corpus Domini, ma che un tempo si usava preparare per la ricorrenza della Decennale Eucaristica o Festa degli Addobbi, quando la processione transitava per le strade adornate da fiori, altarini e stendardi di seta rossa o gialla oro. Al riso, cotto nel latte, si aggiungono zucchero, mandorle pelate e finemente tritate, amaretti, canditi assortiti tagliati a dadini, la buccia di limone grattugiata e, a volte, anche un po’ di cioccolato o zucchero caramellato, giusto per colorare. Si lascia raffreddare per qualche minuto prima di incorporare le uova, una alla volta, mescolando con forza, e si mette a cuocere, in una teglia con i bordi alti imburrata e cosparsa di pangrattato, in forno caldo (180° C) per 30 minuti circa o finché non si forma una bella crosta dorata. Sformata quando è ancora tiepida e tagliata a rombi, si può servire subito spennellata di maraschino o amaretto o fredda cosparsa di zucchero a velo.

 

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