Auguri al Lambrusco Grasparossa di Castelvetro

06/03/2020

L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di  città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche,  vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1970 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).

 

LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO

Disciplinare: Approvato con D.P.R. 1.05.1970 (G.U. 203 – 12.08.1970)

Regione: Emilia-Romagna

Provincia/e: Modena

Città del Vino:  Castelvetro di Modena

Enoregione: COLLINE EMILIANE, TERRE DEI LAMBRUSCHI EMILIANI

Tipologie: Lambrusco Grasparossa di CastelvetroRosso Spumante, Lambrusco Grasparossa di CastelvetroRosato Spumante, Lambrusco Grasparossa di CastelvetroRosso Frizzante, Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Rosato Frizzante

Vitigni: Lambrusco Grasparossa (minimo 85%); possono concorrere alla produzione di detto vino le uve di altri Lambruschi, e Malbo Gentile, da soli o congiuntamente, fino a un massimo del 15%.

Cenni storici e/o geografici: L’origine storica della denominazione “lambrusco grasparossa” è sicuramente nota fin dalla metà del 1800 come dimostrano i numerosi documenti storici tra i quali troviamo il “catalogo alfabetico di quasi tutte le uve” redatto da Luigi Maini nel 1854 e il “catalogo descrittivo delle principali varietà di uve coltivate nelle provincie di Modena e di Reggio Emilia” dell’Avv. Francesco Aggazzotti pubblicato nel 1867. Della “vitis Labrusca” ne parla Catone nel De Agricoltura e Varrone nel De Rustica. E ancora Plinio, che nella Naturale Historia, documenta le caratteristiche della “vitis vinifera” “le cui foglie come quelle della vite Labrusca, diventano di colore sanguigno prima di cadere”. Nel 1300 il bolognese Pier dè Crescenzi, nel suo trattato di agricoltura osserva sulle Labrusche, che “nere sono, tingono i vini e chiariscono, ma intere e con raspi stropicciati si pongono nei vasi e non viziano il sapore del vino”. E’ il primo documento che indica che in quei tempi era nato l’uso di fare il vino dall’uva di quelle viti, che forse non erano più tanto “selvatiche”. Occorre ricordare infatti che le antiche Labrusche erano le viti selvatiche (Vitis Vinifera Silvestris) o le viti della sottospecie Vitis Vinifera Sativa, che nascevano spontaneamente da seme, nei luoghi non coltivati. Per questo motivo il Lambrusco è considerato uno dei vitigni più autoctoni del mondo in quanto deriva dall’evoluzione genetica della Vitis Vinifera Silvestris Occidentalis la cui domesticazione ha avuto luogo nel territorio modenese. Il vino Lambrusco è sempre stato tenuto in grande onore dai Duchi, tanto è vero che, due secoli e mezzo prima, in un suo “olografo” del giugno del 1430, Nicolò III d’Este aveva ordinato che “di tutto il vino che veniva condotto da Modena a Parigi, la metà del dazio non venisse pagata”, in modo da favorirne il commercio. Gli autori più significativi dell’800 confermano come nel corso dei secoli Modena rappresenta un territorio vocato alla produzione di vini mossi che hanno acquisito particolare notorietà e tradizione di produzione e consumo e i cui caratteri sono dovuti esclusivamente o essenzialmente all’ambiente, compresi tutti i fattori naturali e umani che lo definiscono. Gli Autori latini (Catone, Plinio, Columella) nei loro scritti descrivono la produzione di un vino mosso (lambrusco) in grado di liberare spuma e quindi se ne deriva l’immagine di un vino frizzante. Occorre però attendere lo sviluppo delle conoscenze che si ebbero dalla fine del ‘600 a tutto l’800 per capire la causa biologica e la natura chimica della fermentazione alcolica e alcuni aspetti relativi alla tecnica enologica collegata. Altre scoperte dovevano però fare far in modo che tutta l’anidride carbonica prodotta nel corso della fermentazione rimanesse sciolta nel vino: occorreva da un lato un contenitore in grado di reggere la pressione e dall’altro un tappo che ne impedisse la fuga. Sono due condizioni queste che si realizzarono tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700. Tale propensione per vini frizzanti bianchi e rossi viene ricordata da Autori successivi del ‘600 e del ‘700, fino alla conclusione della lunga evoluzione genetica che porterà alla miglior identificazione delle viti selvatiche dei latini nelle varietà bianche e soprattutto rosse (famiglia dei Lambruschi modenesi) descritte dagli ampelografi del 1800 (in particolare Acerbi, Mendola e Agazzotti). Oltre ai progressi tecnologici si ebbe anche un importante cambiamento climatico (piccola era glaciale) con autunni freddi e umidi, ritardi di maturazione e fermentazioni incomplete che determinavano riprese fermentative in botte con rottura delle stesse. Dalla metà dell’800 alla metà del ‘900 la maniera più diffusa di ottenere un lambrusco frizzante naturale in senso industriale era rappresentata dalla rifermentazione in bottiglia. Si otteneva così un lambrusco frizzante torbido, senza sboccatura, e la gran parte del prodotto. Nel 1860 prese così ad operare a Modena la prima cantina di produzione di lambrusco frizzante di tutta l’Emilia. Le produzioni migliori venivano comunque sottoposte alla eliminazione delle fecce anche con metodi che ne diminuissero le perdite quanti qualitative, dapprima con macchine travasatrici isobariche (messe a punto dal Martinotti a fine ‘800), mentre attualmente anche nei vini frizzanti e spumanti rifermentati in bottiglia si usa eliminare il deposito di fecce di lievito dopo averlo fatto discendere verso il tappo e previo congelamento del collo della bottiglia.

Abbinamenti: Consigliato con pizze e piatti ricchi perché capace di esaltare i sapori ma allo stesso tempo coadiuvarne la digestione, si sposano bene con crescentine con lardo e affettati misti (prosciutto, culatello), spalla cotta, tortellini, tortelli di zucca e la classica ciambella reggiana.

 

Prodotto: BELECOT (O BELL E COTT) PAT

Descrizione: Numerosi in Emilia-Romagna gli insaccati dalla forma arrotondata che ricordano il cotechino nell’impasto e richiedono una lunga cottura. Dallo zuccotto di bismantova all’ad pal ad cutghen (o palla di cotechino) insaccato nel gozzo del tacchino, dal manicotto di Mirandola e dal sassolino di Sassuolo racchiusi nella cotenna alla celebre salama da sugo ferrarese – fatta con carne del collo del maiale, fegato, lingua, vino rosso e spezie – insaccata nella vescica suina, asciugata sotto la cenere e lasciata stagionare dai sei ai ventiquattro mesi in ambienti ventilati e caldi, oltre naturalmente alla già citata Bondiola (PAT). Il Belecot, che si produce da settembre a marzo, è un salame a pasta cruda, a metà strada tra il cotechino e la salsiccia matta. L’impasto, che si presenta di colore bianco nella parte grassa e rosso vivo nella parte magra, è preparato con carni di suino di seconda e terza scelta (muscoli, cuore, gola, collo e una parte di cotenne pestate nel mortaio), macinate a macchina a grana medio-fine, insaporite con sale, pepe, aglio e cannella e insaccate in budella di vitello. Di forma cilindrica, legato con spago a quattro o otto spicchi, deve maturare dai dieci ai quindici giorni poi essere cucinato rapidamente, previo lavaggio con vino e aceto. Tutti questi salumi, che si possono consumare sia freddi che caldi dopo aver bollito per diverse ore, si mangiano tagliati a spicchi accompagnati da spinaci saltati al burro, lenticchie, purè di patate o di zucca.

 

Piatto: BORLENGHI (O BURLENG O BURLANG O ZAMPANELLE) PAT

Descrizione: Il nome significa «cibo per burla» perché un tempo i borlenghi si preparavano durante il Carnevale, ma anche perché il loro aspetto è molto più voluminoso della sottilissima sfoglia di cui sono composti. È curioso che questo piatto montanaro – che in passato era preparato in una padella di rame stagnato detta il «sole» – nella zona appenninica assuma il nome di campanella, termine che in Toscana e in Abruzzo sta invece a indicare una sorta di bruschetta. Mescolando farina, olio, sale e acqua tiepida si ottiene un composto molle e colloso da lasciar riposare in frigorifero dalle ventiquattro alle 36 ore. Si versa poi a cucchiaiate su una piastra unta arroventata in modo che si espanda in uno strato sottile e, quando è cotto da un lato, si rigira fino a ottenere una schiacciata sottile e dorata, appena abbrustolita. Da gustare ancora caldissimo piegato grossolanamente in quattro e farcito con la cunza, un saporito ripieno di pancetta, lardo, aglio, rosmarino e Parmigiano grattugiato. Ma i borlenghi sono da provare anche con gli ottimi salumi (lardo, prosciutto crudo, ciccioli, coppa di testa) e formaggi locali.

 

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