Auguri al Ghemme

19/04/2019

L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di  città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche,  vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1969 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).

 

GHEMME

Disciplinare: Approvato con DPR 18.09.1969 (G.U. 292-1969), poi Docg con DM 29.05.1997 (G.U. 137-14.06.1997)

Regione: Piemonte

Provincia/e: Novara

Città del Vino: Ghemme e Romagnano Sesia

Tipologie: Ghemme, Ghemme Riserva

Vitigni: Nebbiolo (Spanna) minimo 85%. E’ consentito l’utilizzo dei vitigni Vespolina ed Uva Rara (Bonarda Novarese) da soli o congiuntamente fino ad un massimo del 15%.

Cenni storici e/o geografici: La collocazione geografica di Ghemme è nell’Alto Piemonte , ai confini con la Valsesia, nelle vicinanze del Monte Rosa, con il Monte Fenera a nord ed i laghi Maggiore ed Orta a Nord Ovest. In epoca glaciale i ghiacciai del Monte Rosa si propagavano fino alla pianura, dove oggi si trovano estesi terreni irrigui coltivati a riso e a cereali. La popolazione è stata da sempre dedita all’agricoltura, con particolare riguardo al settore vitivinicolo. Come tutti i grandi vini, vanta origini antichissime. La lapide di Vibia Earina, liberta di Vibio Crispo, senatore romano ai tempi di Tiberio, rinvenuta nei pressi di Ghemme,è un reperto archeologico di indiscussa affidabilità che testimonia, nella zona, la coltivazione della vite fin dai tempi dei romani. In quei tempi, comunque, pare che i vignaiuoli badassero più alla quantità che alla qualità: era tale la quantità di vino prodotto che la città di Anagnum, in seguito Ghemme, scelse come simbolo un grappolo d’uva ed un mazzo di spighe di grano per il gonfalone comunale. Fu in seguito compito dei monaci conservare il rispetto delle buone regole di vinificazione. L’entusiasmo con cui si dedicarono a questa loro "missione" diede degli ottimi risultati. Il vino veniva venduto in gran parte nei mercati vicini, soprattutto a Milano. A partire dal secolo scorso numerose aziende di proprietà di famiglie locali hanno incrementato la diffusione del Ghemme con una sempre maggiore attenzione alla vinificazione di qualità. Dagli anni ’70 ha ripreso pieno vigore il settore vitivinicolo, con esperienze pluriennali di lotta guidata ed integrata.

Descrizione: Il vino a denominazione di origine controllata e garantita "Ghemme", all’atto dell’immissione al consumo deve rispondere alle seguenti caratteristiche: colore: rosso rubino anche con riflessi granata; odore: profumo caratteristico, fine, gradevole ed etereo; sapore: asciutto, sapido, con fondo gradevolmente amarognolo, armonico. Il “Ghemme Riserva”, all’atto dell’immissione al consumo, deve rispondere alle seguenti caratteristiche: colore: rosso rubino tendente al granata; odore: profumo caratteristico, fine, gradevole ed etereo; sapore: sottile, asciutto, sapido, armonico, austero ma vellutato, con fondo gradevolmente amarognolo. Consigliato l’abbinamento con arrosti di carni rosse e bianche, brasati, lessi e formaggi a pasta dura.

 

Prodotto   SALAME DELLA DUIA (O SALAM D’LA DUJA)  (PAT)

Salame di puro suino tipico delle zone del vercellese e del novarese, conservato sotto grasso in recipienti di coccio detti appunto "duje". Questa tipo di conservazione veniva utilizzata in passato soprattutto nelle zone molto umide del Piemonte, dove non era possibile far stagionare i salami all’aria con il metodo tradizionale. Le carni suine di prima scelta (culatello, spalla, coscia e coppa) sono macinate a grana media insieme a grasso di pancetta e condite con sale, pepe, aglio e vino rosso. Insaccato in budello di manzo, il salame viene poi fatto maturare nel coccio, immerso nello strutto fuso che gli consente di restare morbido a lungo e gli conferisce un caratteristico sapore piccante. Segue una stagionatura della durata di circa un anno.

 

 

Piatto PANISCIA (O PANISSA) (PAT)

Il nome deriva dal dialettale di «paniccia», minestra medioevale a base di miglio o ceci, ingredienti che probabilmente sostituivano il riso. Fagioli borlotti (ottimi quelli di Saluggia, PAT), verza, sedano, carote e una cucchiaiata di conserva di pomodoro vengono messi a cuocere in un brodo precedentemente preparato con osso di prosciutto, cotenna di maiale e alloro. In una casseruola si fanno rosolare cipolla, lardo, salsiccia o Salame d’la doja (PAT) – insaccato di suino macinato grossolanamente, condito con pepe, aglio e vino e conservato nello strutto – sbriciolati. Si aggiunge il riso (Carnaroli o Arborio, meglio se della varietà Riso di Baraggia Biellese e Vercellese, DOP) e, quando è ben tostato, si bagna prima con vino rosso poi con il brodo della zuppa di verdure. A tre quarti della cottura si uniscono anche i fagioli. Prima di essere servito, il risotto va lasciato riposare per qualche minuto lontano dal fuoco. Niente formaggio grattugiato, ma una spolverata di pepe.