Da un'economia dei sistemi verso un ecosistema di attori individuali

10/12/2018

L’Italia preda di un sovranismo psichico: dopo il rancore (un tema già anticipato nel 2017), la cattiveria. Nell’ultima parte dell’anno scorso e nella prima parte di quello che si va chiudendo, il miglioramento dei parametri economici, la fiducia delle famiglie e delle imprese, le positive dinamiche industriali e dell’occupazione facevano percepire la possibilità concreta di vedere completato il superamento della crisi e dei dubbi sul nostro modello di sviluppo. La ripartenza poi non c’è stata: il rallentamento degli indicatori macroeconomici, il volgersi al negativo del clima di fiducia delle imprese, l’impoverimento del vigore della crescita, il rinforzarsi di vecchie insicurezze nella vita quotidiana e dal costituirsene di nuove, lascia pensare che tutto arretri e che la delusione per lo sfiorire della ripresa e l’atteso cambiamento miracoloso abbia incattivito gli italiani, che sembrano disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino. Queste, in sintesi, le “Considerazioni generali” del 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese.

Del resto sono sotto gli occhi di tutti lo squilibrio dei processi d’inclusione dovuto alla contraddittoria gestione dei flussi migratori, l’insicura assistenza alle persone non autosufficienti interamente scaricata sulle famiglie e sul volontariato, l’incapacità di sostenere politiche di contrasto alla denatalità, la faticosa gestione della formazione scolastica e universitaria, il cedimento rovinoso della macchina burocratica e della digitalizzazione dell’azione amministrativa, la scarsità degli investimenti in nuove infrastrutture e nella manutenzione di quelle esistenti, il ritardo nella messa in sicurezza del territorio o nella ricostruzione dopo le devastazioni per alluvioni, frane e terremoti.

Ed ecco allora che la società vive una crisi di spessore e di profondità: gli italiani sono incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Per il 75% degli italiani gli immigrati fanno aumentare la criminalità, per il 63% sono un peso per il nostro sistema di welfare. Solo il 23% degli italiani ritiene di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori e il 67% ora guarda il futuro con paura o incertezza. Il potere d’acquisto delle famiglie va ancora giù del 6,3% rispetto al 2008. Tra i 15 e i 24 un giovane su quattro è a rischio povertà. Scompaiono i giovani laureati occupati (nel 2007 erano 249 ogni 100 lavoratori anziani, oggi sono appena 143), aumenta il lavoro “povero” e il lavoro “a ogni costo”. Più della metà degli italiani pensa che le persone non abbiano le stesse opportunità di diagnosi e cure (in quanto influenzate da serie di variabili, dalla territorialità dell’offerta alla condizione socio-economica, all’età delle persone) con conseguente corsa a comportamenti opportunistici e la convinzione che ognuno debba pensare a se stesso. Scarsa sicurezza degli edifici scolastici, atti di vandalismo, insubordinazione e discriminazione, scetticismo nei confronti dei percorsi di alternanza scuola-lavoro caratterizzano negativamente anche la percezione dei processi formativi.

Quest’anno il Rapporto non si sofferma, come in passato, sui fenomeni legati al turismo, all’agricoltura, alla green economy o al Made in Italy, ma nel capitolo “Territorio e reti” ci racconta qualcosa che può interessare il governo locale e quindi anche le politiche delle Città del Vino:

·     Rappresentare i territori nell’epoca dei flussi e delle città. Dal 2014 abbiamo in Italia 10 nuovi enti che si chiamano Città metropolitane. A questi se ne sono aggiunti altri 4 voluti dalle Regioni a statuto speciale. Territori ampi, ma con densità abitativa non certo da area metropolitana (470 abitanti/kmq in media) a confronto con altre realtà europee. La demografia del nostro Paese rimanda al carattere territorialmente distribuito della popolazione residente: gli attuali 111 capoluoghi di provincia raccolgono nel complesso poco più di 18 milioni di abitanti, ossia non più del 30% del totale.

·     L’aumento dei divari interni nelle regioni italiane. La variabilità è aumentata nell’ultimo decennio per tutti i principali indicatori socio-economici. Le regioni che divaricano al loro interno non sono solo quelle dove è presente un grande magnete metropolitano, che determina fenomeni di accentramento che possono incidere sulla misura della variabilità regionale complessiva. L’aumento dei divari interessa quasi tutte le regioni: il Pil pro-capite, ad esempio, mostra una variabilità media infra-regionale di 6.160 euro/anno, con un aumento di 750 euro/anno nell’ultimo decennio.

·     Ai margini del margine: il peso dei comuni periferici nelle aree del Mezzogiorno. Le aree interne raccolgono il 60% circa della superficie nazionale, il 53% dei comuni italiani e una popolazione di circa 13,5 milioni di abitanti. Ma anche le aree interne possono essere più o meno marginali e dunque molto diverse tra loro. I 1.842 comuni periferici e ultraperiferici risultano maggioritari in alcune regioni, come la Basilicata (84,7%) e la Sardegna (59,7%), e sono molto presenti in Trentino Alto Adige (47,6%), Sicilia (44,9%), Molise (43,4%) e Calabria (40,3%). La popolazione residente in questi territori (circa 4,5 milioni di abitanti) evidenzia profonde differenze su base geografica: nel Mezzogiorno si arriva al 15,7% (con una punta del 63,7% in Basilicata), nel Nord-Ovest non si va oltre il 2,6%. La dinamica demografica degli ultimi 10 anni è negativa per i comuni periferici e ultraperiferici, con punte di impoverimento demografico che superano il 10% in Friuli e Molise.

Nessun segnale positivo, allora? Qualcuno sì, segnali che da tempo mancavano: la ripresa degli investimenti nel settore delle costruzioni dopo anni di progressiva e strutturale decadenza; il consolidamento di una positiva bilancia commerciale nelle tecnologieprimato italiano nell’economia circolare con uno spread tecnologico positivo e in costante miglioramento rispetto al sistema industriale tedesco; il crescente fatturato dei tanti soggetti dell’economia esplorativa (dalle piattaforme per i portapacchi dell’era digitale ai tanti settori dell’industria e della ricerca globale), la crescita delle risorse investite nella ricerca da imprese, università pubbliche e private e istituzioni non profit.

Andiamo però verso un appiattimento della società, verso un ecosistema di attori individuali dove – e qui sta la potenza del cambiamento – ciascuno afferma un proprio paniere di diritti e perde senso qualsiasi mobilitazione sociale. Ognuno organizza la propria dimensione sociale fuori dagli schemi consolidati: il lavoro dipende da qualche specializzazione e quindi non ha un padrone, ma tanti committenti; ci sono per ciascuno momenti di successo e momenti di regressione; convivono interessi diversi e anche contrapposti; non si opera più dentro le istituzioni per cambiarle, ma ci si mobilita al di fuori. Siamo di fronte a una politica dell’annuncio, ma l’annuncio, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al progetto politico, da profetico si fa epigonale. Bisogna prendere coscienza del fatto di avere di fronte un ecosistema di attori e processi e non dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso e diseguale. C’è bisogno di un dibattito sull’orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi. Ritorna il tema dell’egemonia e del ruolo delle élite, serve una responsabilità politica che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un sistema complesso e proponga una prospettiva nel futuro. (di Alessandra Calzecchi Onesti)

 

 

 

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