L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche, vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1971 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).
REGGIANO
Disciplinare: D.P.R. 22.07.1971 (G.U. 223 – 4.09.1971)
Regione: Emilia-Romagna
Provincia: Reggio Emilia
Enoregione/i: COLLINE EMILIANE, TERRE DEI LAMBRUSCHI EMILIANI
Tipologie: Reggiano Lambrusco (anche Frizzante e Spumante), Reggiano Lambrusco Salamino (anche Frizzante), Reggiano Rosso (anche Frizzante), Reggiano Bianco Spumante, Reggiano Lambrusco Novello (anche Frizzante), Reggiano Rosso Novello.
Vitigni: Lambrusco Marani, Lambrusco salamino, Lambrusco Montericco, Lambrusco Maestri, Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Grasparossa, Lambrusco Viadanese, Lambrusco Oliva, Lambrusco Barghi, Ancellotta, Malbo Gentile, Lambrusco a foglia frastagliata, Fogarina, Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Marzemino.
Cenni storici e/o geografici: Il vigneto reggiano risale all’epoca romana (mosaici del I secolo a.C. conservati presso i Musei Civici di Reggio Emilia). Notizie della diffusione della coltura della vite nell’area delimitata giungono dai numerosi contratti d’enfiteusi del medioevo, IX-X sec. d.c., ribadite dagli Statuti del 1265. Il legame con vitigni autoctoni denominati “uve lambrusche” è sancito già nel 1303 dal Pier De Crescenzi. La migliore conferma dell’importanza del vino nel reggiano resta in ogni caso l’enorme diffusione della vite sul territorio provinciale, testimoniata nel 1597 da Andrea Bacci, nel 1661 da Vincenzo Tanara e nel XIX secolo da Filippo Re, Claudio della Fossa e Claudio Roncaglia, che evidenziano i tratti tipici del vino prodotto: brusco e frizzante, più o meno corposo. Nel 1847 si producono in provincia di Reggio Emilia un milione di quintali di uva (Bellocchi), che salgono a 1,7 milioni di quintali nel decennio 1908-1918, realizzati su di 107.000 Ha di vigna a coltura promiscua, con filari di viti maritate a tutori vivi, che si estende ininterrotta dalla dolce collina alle rive del fiume Po. La produzione principale è di mosti e vini rossi, in particolare lambruschi, prevalentemente frizzanti, in buona parte esportati in Veneto o all’estero, come indicano documenti ferroviari dei primi del ‘900. E’ in questo periodo che nascono le prime strutture cooperative per la lavorazione e la commercializzazione di mosti e vini, che si diffonderanno rapidamente su tutta l’area delimitata, e che si sviluppa l’enologia della zona. Del 1906 è la prima cantina sociale, sorta a San Martino in Rio. La legge del 10 luglio 1930 riconosce il lambrusco tra i vini tipici italiani. Con l’evoluzione dell’enologia reggiana, cambia anche il paesaggio vitato: dagli anni ’60 del XX sec., la superficie vitata a cultura promiscua si riduce sensibilmente, lasciando il posto a vigneti specializzati, presupposto per una maggiore qualificazione della viticoltura della zona. Nel 1962 nasce il “Consorzio volontario per la difesa del vino tipico lambrusco reggiano”, che successivamente avrà l’incarico di tutelare e promuovere i vini reggiani in Italia e nel mondo. Nel 1972 viene riconosciuta la denominazione d’origine controllata “Lambrusco Reggiano”, che interessa un’ampia zona di pianura, soprattutto a nord-est di Reggio Emilia, e verso sud, compresa una prima zona di collina, e i seguenti vitigni: Lambrusco Marani, Lambrusco Salamino, Lambrusco di Montericco, Lambrusco Maestri e Ancellotta. Le condizioni ambientali e di coltura del vigneto devono essere quelle tradizionali, e comunque atte a conferire al vino derivato le specifiche caratteristiche, mentre è vietata ogni pratica di forzatura. Nel 1996 la denominazione d’origine cambia nome in “Reggiano”, differenziando le tipologie ottenibili.
Abbinamenti: Piatti tradizionali della cucina emiliana, come tortellini, tagliatelle al ragù, lasagne verdi, culatello, zampone, torte di riso, salumi tipici della Regione.
Prodotto: PANCETTA PIACENTINA (DOP)
Descrizione: Conosciuti e apprezzati fin dal Seicento, i salumi di Piaseinsa già allora costavano di più, come riferiscono i documenti dell’epoca e venivano serviti solo sulle tavole patrizie, ma fu soprattutto il cardinale Giulio Alberini, nei primi decenni del Settecento, a far conoscere il salame piacentino, la coppa e la pancetta a re e principi di Francia e Spagna. Del resto l’esperienza nella salagione del porco di questi territori risaliva a diversi millenni prima, come dimostrano reperti preistorici palafitticoli delle zone di Caorso e Alseno, e in epoca romana era proverbiale l’abilità dei galli cisalpini nel fare lucaniche e insaccati. La pancetta ha forma cilindrica e colore rosso vivo al taglio, inframmezzato dal bianco delle parti grasse (è uno dei tagli adiposi del suino), profumo gradevole, dolce, leggermente speziato e un sapore molto caratteristico. Dopo la salatura – effettuata a mano con una miscela di sali, aromi naturali e spezie – e una sosta in frigorifero per circa quindici giorni, si procede alla raschiatura per eliminare eventuali residui della lavorazione e l’eccesso di condimenti. La pancetta è poi arrotolata e legata, lasciata asciugare a una temperatura massima di 25° C per una settimana e infine stagionata per almeno due mesi. La produzione è diffusa in tutta la provincia di Piacenza, ma la stagionatura deve rigorosamente avvenire in località che non superino i 900 metri di altitudine. Spesso utilizzata anche cotta per arricchire il sapore di legumi, primi piatti, preparazioni a base di carne, cruda è ottima come farcia di tigelle o gnocchi fritti o come antipasto insieme alle fave e al Pecorino.
Piatto: CALCIAGATTI (O CHELZAGÀT O PAPACC O PAPARÒCC O PULENTA IMBRUCADA) (PAT)
Descrizione: I borlotti, lessati e passati in un soffritto di lardo e aglio finemente macinati, vengono profumati con punte di rosmarino tritate e mescolati a una morbida polenta di farina gialla preparata con l’acqua di cottura dei fagioli stessi. Si fa cuocere per circa dieci minuti, si versa sul tagliere e si lascia intiepidire prima di servire a fette alte un dito insieme a formaggi teneri e salse a base di mosto cotto come la saba e il savôr. Si può anche infarinare leggermente la polenta e friggerla in olio o strutto.