Auguri al Lambrusco di Sorbara

05/03/2020

L’Associazione nazionale Città del Vino, che conta tra i suoi Comuni un gran numero di  città legate ai disciplinari delle denominazioni storiche,  vuole celebrare i 50 anni dei vini che hanno ottenuto la certificazione nel 1970 con articoli, eventi e approfondimenti. Iniziamo proponendo una scheda con le caratteristiche e gli abbinamenti di queste DOC (alcune delle quali sono nel frattempo diventate DOCG).

 

LAMBRUSCO DI SORBARA

Disciplinare: Approvato con DPR D.P.R. 1.05.1970 (G.U. 206 – 17.08.1970)

Regione: Emilia-Romagna

Provincia/e: Modena

Città del Vino:  Castelvetro di Modena Bomporto

Enoregione: TERRE DEI LAMBRUSCHI EMILIANI

Tipologie: Lambrusco di Sorbara Rosso Spumante, Lambrusco di Sorbara Rosato Spumante, Lambrusco di Sorbara Rosso Frizzante, Lambrusco di Sorbara Rosato Frizzante

Vitigni: Lambrusco di Sorbara (minimo 60%), Lambrusco Salamino (massimo 40%), altri Lambruschi, da soli o congiuntamente fino a un massimo del 15%.

Cenni storici e/o geografici: L’origine storica della denominazione “Lambrusco di Sorbara” è sicuramente nota fin dal 1800 come dimostrano i numerosi documenti storici tra i quali troviamo il Saggio Chimico-Igeologico-Terapeutico sul vino “Lambrusco di Sorbara” estratto dal fascicolo dell’Associazione Agraria Italiana della regia Accademia di Torino pubblicato sulla Gazzetta di Modena di mercoledì 11 giugno 1862, il catalogo descrittivo delle principali varietà di uve coltivate nelle provincie di Modena e di Reggio Emilia pubblicato nel 1867, il saggio analitico “I lambruschi di Sorbara e salamino” di Enrico Ramazzini del 1885. frizzante, versatile, allegro ma con bassa gradazione alcolica: queste sono le caratteristiche che hanno fatto del Lambrusco il vino che meglio caratterizza la regione in cui è prodotto, nonché, dagli anni ‘70, uno tra i più apprezzati vini italiani al mondo. Ma il Lambrusco di Sorbara aveva avuto estimatori eccellenti già in passato: dal poeta dell’Eneide, Virgilio, fino ai duchi Estensi e alla contessa Matilde di Canossa. Della “vitis Labrusca” ne parla Catone nel De Agricoltura e Varrone nel De Rustica. E ancora Plinio, che nella Naturale Historia, documenta le caratteristiche della “vitis vinifera” “le cui foglie come quelle della vite Labrusca, diventano di colore sanguigno prima di cadere”. Nel 1300 il bolognese Pier dè Crescenzi, nel suo trattato di agricoltura osserva sulle Labrusche, che “nere sono, tingono i vini e chiariscono, ma intere e con raspi stropicciati si pongono nei vasi e non viziano il sapore del vino”. E’ il primo documento che indica che in quei tempi era nato l’uso di fare il vino dall’uva di quelle viti, che forse non erano più tanto “selvatiche”. Occorre ricordare infatti che le antiche Labrusche erano le viti selvatiche (Vitis Vinifera Silvestris) o le viti della sottospecie Vitis Vinifera Sativa, che nascevano spontaneamente da seme, nei luoghi non coltivati. Per questo motivo il Lambrusco è considerato uno dei vitigni più autoctoni del mondo in quanto deriva dall’evoluzione genetica della Vitis Vinifera Silvestris Occidentalis la cui domesticazione ha avuto luogo nel territorio modenese. Il vino Lambrusco è sempre stato tenuto in grande onore dai Duchi, tanto è vero che, due secoli e mezzo prima, in un suo “olografo” del giugno del 1430, Nicolò III d’Este aveva ordinato che “di tutto il vino che veniva condotto da Modena a Parigi, la metà del dazio non venisse pagata”, in modo da favorirne il commercio. Gli autori più significativi dell’800 confermano come nel corso dei secoli Modena rappresenta un territorio vocato alla produzione di vini mossi che hanno acquisito particolare notorietà e tradizione di produzione e consumo e i cui caratteri sono dovuti esclusivamente o essenzialmente all’ambiente, compresi tutti i fattori naturali e umani che lo definiscono. Gli Autori latini (Catone, Plinio, Columella) nei loro scritti descrivono la produzione di un vino mosso (lambrusco) in grado di liberare spuma e quindi se ne deriva l’immagine di un vino frizzante. Occorre però attendere lo sviluppo delle conoscenze che si ebbero dalla fine del ‘600 a tutto l’800 per capire la causa biologica e la natura chimica della fermentazione alcolica e alcuni aspetti relativi alla tecnica enologica collegata. Altre scoperte dovevano però fare far in modo che tutta l’anidride carbonica prodotta nel corso della fermentazione rimanesse sciolta nel vino: occorreva da un lato un contenitore in grado di reggere la pressione e dall’altro un tappo che ne impedisse la fuga. Sono due condizioni queste che si realizzarono tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700. Tale propensione per vini frizzanti bianchi e rossi viene ricordata da Autori successivi del ‘600 e del ‘700, fino alla conclusione della lunga evoluzione genetica che porterà alla miglior identificazione delle viti selvatiche dei latini nelle varietà bianche e soprattutto rosse (famiglia dei Lambruschi modenesi) descritte dagli ampelografi del 1800 (in particolare Acerbi, Mendola e Agazzotti). Oltre ai progressi tecnologici si ebbe anche un importante cambiamento climatico (piccola era glaciale) con autunni freddi e umidi, ritardi di maturazione e fermentazioni incomplete che determinavano riprese fermentative in botte con rottura delle stesse. Dalla metà dell’800 alla metà del ‘900 la maniera più diffusa di ottenere un lambrusco frizzante naturale in senso industriale era rappresentata dalla rifermentazione in bottiglia. Si otteneva così un lambrusco frizzante torbido, senza sboccatura, e la gran parte del prodotto. Nel 1860 prese così ad operare a Modena la prima cantina di produzione di lambrusco frizzante di tutta l’Emilia. Le produzioni migliori venivano comunque sottoposte alla eliminazione delle fecce anche con metodi che ne diminuissero le perdite quanti qualitative, dapprima con macchine travasatrici isobariche (messe a punto dal Martinotti a fine ‘800), mentre attualmente anche nei vini frizzanti e spumanti rifermentati in bottiglia si usa eliminare il deposito di fecce di lievito dopo averlo fatto discendere verso il tappo e previo congelamento del collo della bottiglia.

Abbinamenti: Vino versatile che bene accompagna tutti i piatti ricchi della cucina modenese; in particolare paste asciutte, tortellini, tagliatelle, lasagne alla bolognese, zampone, cotechini, bolliti misti, arrosti di carni bianche, verdure, gnocco fritto, salumi crudi e cotti, Parmigiano Reggiano e Grana Padano freschi. I tipi amabile e dolce si sposano con i dolci modenesi.

 

Prodotto: SQUACQUERONE DI ROMAGNA (O SQUAQUARON) DOP

Descrizione: Secondo alcuni derivano dall’antico Ravaggiolo delle Valli Forlivesi, leggermente burroso e dal sapore molto delicato, sia la Casatella della Romagna sia lo Squacquerone, freschissimo formaggio che prende il nome dalla tendenza a liquefarsi ed è prodotto con latte intero vaccino, innestato con fermenti lattici vivi. La cagliata viene rotta due volte in pezzi grossi come una noce, poi lasciata riposare per la colatura del siero e, infine, stufata negli stampi fino a quando la pasta, più volte rigirata, raggiunge la caratteristica consistenza. Passa poi in salamoia e successivamente, avvolta in pergamena, in frigorifero per altri quattro o cinque giorni. Si presenta in forme rotonde da uno a tre chili, senza crosta, con pasta molle e gusto dolce con marcato sentore di latte giustamente acidulo. Ottimo con le piadine, è un ingrediente fondamentale della minestra imbottita (o spoja lorda): piccoli rombi di pasta all’uovo farciti con un ripieno di Squacquerone e Grana Padano grattugiato, profumati con noce moscata e cotti in un brodo bollente di gallina e verdure, filtrato e arricchito con ritagli di carne frullati. Prima di portare in tavola, si lega con burro freddo e si spolverizza con altro Grana.

 

Piatto: LASAGNE VERDI ALLA BOLOGNESE

Descrizione: Hanno origine nelle strisce di pasta tagliate a riquadri più o meno regolari che greci e romani cuocevano in pentola o sulla piastra poi condivano con legumi e formaggio, ma è solo nel libro di cucina di Francesco Zambrini del XIV secolo che troviamo la descrizione di una pietanza che prevede strati di pasta alternati a strati di formaggio. Ignorate dal testo dell’Artusi, la fama delle lasagne alla bolognese nasce agli inizi del secolo scorso grazie all’opera di alcuni ristoranti e al Ghiottone errante di Paolo Monelli. Ogni famiglia della città segue una propria tradizione nel prepararle – possono essere o meno verdi purché rigorosamente condite con il ragù alla bolognese, anch’esso prodotto in molte versioni – ed è proprio in seguito allo studio attento di tutte queste varianti che nel 2003 l’Accademia Italiana della Cucina ha depositato presso la Camera di Commercio di Bologna la ricetta originale delle lasagne alla bolognese. L’impasto della sfoglia è a base di uova, farina e spinaci cotti in poca acqua e passati al passaverdura. Se ne ricavano dei quadrati di circa 10 cm di lato, da lessare in abbondante acqua salata e disporre in una teglia imburrata alternandoli a strati di ragù (macinato di bovino e suino, trito di odori, vino, pomodoro allungato con brodo, latte), poca besciamella e Parmigiano per almeno 6 strati complessivi, avendo cura che non si formino bolle di aria e di terminare con una copertura di pasta sulla quale stendere ragù mescolato alla besciamella, qualche fiocchetto di burro e una spolverata di Parmigiano.

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